«Perché gli amici pompieri e i colleghi si intascavano soldi e gioielli.»
«Quindi gli esperti forensi in genere non vanno sul luogo del ritrovamento?»
«No.»
«E Lucas, allora?»
«Probabilmente Díaz non gli ha dato scelta.»
Arrivò il caffè e lo sorseggiammo in silenzio per qualche secondo. Quando riportai lo sguardo sulla vecchia che cuoceva le tortillas, gli occhi di Galiano seguirono i miei.
«Ecco un'altra cosa che troverà sconcertante. In Guatemala, gli esperti forensi sono interpellati solo per determinare la causa del decesso, non la modalità.»
Galiano si stava riferendo alle quattro categorie in cui si classificano i decessi: omicidio, suicidio, morte accidentale, morte naturale. Se un cadavere viene ritrovato in un lago, e l'autopsia stabilisce che l'acqua penetrata nei polmoni era sufficiente a fermare la respirazione, la causa di morte è l'annegamento. Ma la vittima era caduta, si era buttata o era stata spinta? Queste sono questioni che riguardano la modalità del decesso.
«E chi stabilisce la modalità?»
«Il giudice. Il procuratore distrettuale.»
Galiano osservò una coppia seduta sull'altro lato della sala. Quindi spostò leggermente la sedia, si sporse verso di me e abbassando la voce disse: «È consapevole del fatto che molti tra quanti furono coinvolti nelle atrocità commesse in questo Paese sono ancora al comando dell'esercito?».
Il suo tono mi fece venire la pelle d'oca.
«Sa che molte delle persone che oggi si occupano del lavoro investigativo erano o sono ancora coinvolte in esecuzioni extragiudiziali?»
«Ah sì?»
Gli occhi di Galiano non si staccarono dai miei.
«La polizia?»
Non un batter di ciglia.
«Com'è possibile?»
«Anche se nominalmente qui da noi le forze di polizia dipendono dal ministero degli Interni, in pratica sono controllate dall'esercito. Il sistema giudiziario penale si regge sulla paura.»
«Chi ha paura?»
Un altro sguardo alla sala. Non c'era movimento che gli sfuggisse. Quando Galiano riportò gli occhi su di me, la sua espressione era più dura.
«Tutti hanno paura. I testimoni e parenti delle vittime non sporgeranno mai denuncia, né verranno a testimoniare per paura di essere puniti. Quando le prove portano all'esercito, il giudice o l'accusa devono temere per ciò che potrebbe accadere alla loro famiglia.»
«Ma non ci sono degli osservatori che controllano le violazioni dei diritti umani?» La mia voce era poco più che un sussurro. Galiano si avvicinò ancora di più e lanciò un'ennesima occhiata al locale da sopra le mie spalle.
«Molti degli osservatori sono stati uccisi o ingrossano le fila dei desaparecidos, e qui in Guatemala è successo molto più spesso che in qualsiasi altra parte del mondo. Badi che non lo dico io, ma è una dichiarazione ufficiale.»
L'avevo letto anch'io in un numero recente del bollettino «Human Rights Watch».
«E non stiamo parlando del lontano passato. Tutti quegli omicidi, tranne quattro, sono stati commessi dopo l'insediamento di un governo non militare, nel 1986.»
Una fitta di paura mi attraversò lo stomaco.
«Dove vuole arrivare?»
«Indagare sulla morte di qualcuno da queste parti non è una cosa tranquilla.» Il suo sguardo si velò di amarezza. «Consegna i risultati di un esame autoptico o stila un verbale di polizia che coinvolge le persone sbagliate e la tua vita potrebbe non essere più tanto tranquilla. Consegnare i risultati di una indagine può essere rischioso, se capita che il destinatario del fascicolo stia dalla parte dei cattivi, anche se la persona si occupa di sostenere l'accusa.»
«In altre parole?»
Fece per dire qualcosa, ma poi distolse lo sguardo.
La fitta che avevo sentito si trasformò in un nodo che mi serrò la bocca dello stomaco.
9
Era la mia giornata degli omaggi floreali. Rientrata in albergo, trovai nella mia stanza una composizione grande come un Maggiolino Volkswagen. Il biglietto non poteva che essere di Ryan.
Grazie alla tua mossa, la mia memoria non s'affossa!
AR
Risi per la prima volta in una settimana.
Dopo la doccia, mi studiai nello specchio del bagno, come avrei fatto con un'estranea incontrata per strada. Vidi una donna di mezz'età dai lineamenti delicati, con un ventaglio di rughette ai lati degli occhi e una linea del mento senza cedimenti. Cicatrice di varicella sul sopracciglio sinistro. Fossette asimmetriche.
Mi spazzolai le ciocche dalla fronte e le portai dietro gli orecchi con le dita. I miei capelli erano fini, biondi in origine, poi diventati castani, ormai inesorabilmente destinati al grigio. Avevo sempre desiderato i folti capelli biondi di Harry, la mia sorella minore. Gli spray e le schiume volumizzanti per lei non erano mai esistiti, mentre io spendevo fortune solo per la schiuma.
Per un attimo mi fissai intensamente. Un paio di occhi verdi e stanchi mi guardarono, ciascuno sottolineato da un alone violetto. Un nuovo solco scendeva dal margine interno del sopracciglio sinistro. La luce? Cambiai posizione, indietreggiai di un passo. Niente da fare. Era una vera ruga. Fantastico. Una settimana in Guatemala, ed ero già invecchiata di dieci anni.
O era la preoccupazione per l'avvertimento di Galiano? Ma poi era proprio un avvertimento? Schiacciai un verme di dentifricio sullo spazzolino e cominciai a lavorare sui molari superiori. Qual era il senso della conversazione al Gucumatz? Solo un modo per consigliarmi di stare in guardia? Di fare attenzione a dove andavo e con chi? Usciti dal ristorante, avevamo parlato più che altro del caso della fossa biologica. Ma Galiano non aveva grandi novità.
La visita al consultorio familiare della Zona Uno, che faceva parte della Asociación Pro-Bienestar de la Familia, o APROFAM, non aveva prodotto risultati. Idem per una clinica privata chiamata Mujeres por Mujeres, donne per le donne. La dottoressa Maria Zuckerman, di turno quel giorno, aveva acconsentito, sia pur con una certa riluttanza, a controllare il database delle pazienti, dove aveva trovato due Eduardo - Margarita e Clara - entrambe sulla trentina. Nessuna Lucy Gerardi, né Claudia De la Alva, né Chantale Specter. Se qualcuna delle quattro ragazze aveva fissato un appuntamento o si era fatta visitare, doveva aver dato un nome falso. Che strano!
Galiano aveva anche saputo che saltare gli appuntamenti era una pratica abbastanza comune, e non veniva registrata in modo particolare. Molte pazienti prenotavano e poi non si presentavano. Alcune andavano una o due volte e poi sparivano. Molte rientravano nella stessa fascia di età della ragazza della fossa. Molte erano incinte. Senza una fotografia, o qualche informazione descrittiva, la dottoressa Zuckerman si era rifiutata di permettere che i colleghi venissero «disturbati» con delle domande.
Galiano aveva richiesto un elenco di chiunque avesse telefonato o si fosse presentato alla clinica nell'ultimo anno. Come previsto, la dottoressa Zuckerman si era rifiutata, appellandosi al diritto alla riservatezza dei pazienti. Galiano intendeva tornare con un ordine del tribunale, non appena fosse stato in possesso di più connotati e contrassegni della vittima.
Ancora una volta mi ero sentita assalire dai sensi di colpa. Se avessi eseguito un esame preliminare più accurato il giorno del ritrovamento, adesso quei connotati e contrassegni li avremmo avuti.
Poi avevo chiesto a Galiano notizie sull'aggressione a Carlos e a Molly. Lui aveva sentito qualcosa, ma non poteva dirmi molto perché le indagini venivano svolte a Sololá. Comunque aveva promesso di fare il possibile per procurarmi delle notizie.
Mi versai un po' di crema sul palmo della mano e la massaggiai sul viso.
Avevamo anche parlato di Andrew Ryan. Avevo spiegato a Galiano di che cosa si occupava il suo vecchio amico nella SQ, e lui mi aveva raccontato qualche altro aneddoto degli anni di gioventù trascorsi insieme.
Poco prima di congedarsi, Galiano mi aveva detto che il mattino dopo il suo collega sarebbe andato dagli Eduardo e dai De la Alda, mentre lui si sarebbe incontrato con i Gerardi e gli Specter. Visto il ritrovamento alla Pensión Paraíso, avevano ritenuto necessario ricontattare le famiglie. Avevo chiesto di partecipare anch'io al colloquio; non sarebbe stato pericoloso, avevo argomentato, e gli occhi di un'estranea potevano essere utili. Pur essendo scettico, Galiano aveva accettato.
Spensi la luce, aprii le finestre il più possibile, puntai la sveglia e mi infilai a letto.
Per ore, almeno così mi sembrò, ascoltai il rumore del traffico e guardai le tendine svolazzare davanti alle finestre. Infine mi addormentai con la testa sotto il cuscino. E sognai Galiano e Ryan spassarsela insieme ai tempi dell'università.
Il tenente venne a prendermi alle otto. Stessi saluti. Stessi occhiali.
Ci fermammo per una rapida colazione, durante la quale mi disse che intendeva fare pressione su Mario Gerardi, il fratello maggiore di Lucy.
«Perché Mario?» domandai.
«Pessime vibrazioni.»
«Capisco.» Non avevo più sentito parlare di vibrazioni dall'uscita di scena dei Beach Boys.
«C'è qualcosa in quel ragazzo che non mi convince.»
«I calzini?»
«A volte si segue solo l'istinto.»
Non potevo che essere d'accordo.
«Che cosa fa questo Mario?»
«Il meno possibile.»
«Studia?»
«Fisica a Princeton.» Galiano raccolse l'ultimo boccone di uova e fagioli con una tortilla.
«Quindi il ragazzo non è uno stupido. Adesso che cosa sta facendo?»
«Probabilmente cerca qualche alternativa alla costante di Planck.»
«Il tenente Galiano conosce la teoria dei quanti. Notevole.»
«Mario è ricco, bello, e gioca al grande Gatsby con le signore.»
«Il tenente conosce anche la letteratura. Passiamo alla prossima materia. Che ne dice di: "Perché al Pipistrello non piace il giovane Mario"?»
«Sono i suoi calzini.»
«Curioso che Lucy e Chantale Specter siano scomparse proprio nello stesso periodo, no?»
«Più che curioso.»
A quel punto Galiano afferrò il conto e andò a pagare, ignorando le mie proteste. Dopodiché proseguimmo per la Zona Dieci.
Incolonnati nel traffico di Avenida la Reforma, impiegammo dieci minuti abbondanti prima di lasciarci alle spalle l'Orto Botanico della Universidad de San Carlos. Con l'immaginazione, vidi Lucy Gerardi camminare su quel marciapiede, i lunghi capelli neri che le incorniciavano il viso. Chissà che cosa era successo quel giorno.
Perché era andata all'Orto Botanico? Doveva incontrare qualcuno? Doveva studiare? O solo sognare i suoi progetti di ragazza? Che non avrebbe realizzato.
Erano sue le ossa che Díaz mi aveva sottratto? Distolsi lo sguardo dal finestrino, assalita ancora una volta dai sensi di colpa.
«Perché andiamo prima dai Gerardi?»
«La signora Specter non è molto mattiniera.»
Probabilmente assunsi un'aria sorpresa.
«La mia politica è di non cedere sulle questioni fondamentali, e lasciar correre su quelle secondarie. Se a sua signoria piace dormire, poco male. E poi voglio arrivare dai Gerardi quando paparino è ancora lì.»
Poco oltre l'ambasciata americana, Galiano svoltò in una via fiancheggiata da due file di alberi e accostò al marciapiede. Scesi dall'auto e attesi che finisse di rispondere a una chiamata. Sentii sulla testa i tiepidi raggi del sole di maggio.
Lucy era andata all'Orto Botanico a godersi il sole? A dar da mangiare agli scoiattoli? A osservare gli uccelli? A gironzolare senza meta guardandosi intorno? A riflettere in solitudine sulle aspettative future?
La residenza dei Gerardi era circondata da un prato all'inglese impeccabile chiuso da siepi altrettanto impeccabili. Un sentiero lastricato di pietra portava dal marciapiede al portone di ingresso. Su entrambi i lati spiccavano i vivaci colori delle piante fiorite, le stesse che punteggiavano il giardino.
Il lato destro della proprietà era delimitato da un viale dov'erano parcheggiate una Mercedes 500 S e una jeep Grand Cherokee. In un piccolo recinto sulla sinistra, uno schnauzer non più grosso di una marmotta correva da un lato all'altro abbaiando istericamente.
«Immagino che quello dovrebbe essere un cane» disse Galiano premendo il campanello.
Venne ad aprirci un uomo alto ed emaciato, con i capelli bianchi e occhiali dalla montatura nera. Indossava un completo scuro, camicia bianco abbagliante e cravatta in seta gialla. Che visite poteva aspettare il sabato mattina per sfoggiare una tenuta così formale?
«Buenos días, señor Gerardi» disse cortesemente Galiano.
Gerardi sollevò leggermente il mento e spostò lo sguardo su di me.
«La dottoressa Brennan è l'antropologa che ci aiuta con il caso che riguarda anche sua figlia.»
Gerardi arretrò di un passo per farci entrare, quindi ci precedette lungo un corridoio dal pavimento di marmo tirato a lucido fino a uno studio con le pareti rivestite in legno. Tappeto beshir, scrivanie in legno antico, collezioni di oggetti di lusso elegantemente esibite sulla libreria in mogano. Qualunque fosse la professione di Gerardi, doveva rendere bene.
Appena entrati nella stanza, una donna comparve sulla porta, alle nostre spalle. Era sovrappeso e aveva i capelli color foglia secca.
«Buenos días, señora Gerardi» la salutò Galiano.
La signora lo guardò con paura e disgusto, come avrebbe fatto se ci fosse stato uno scorpione nel lavandino del bagno.
Gerardi apostrofò la moglie in spagnolo, e parlò a una tale velocità che non colsi nemmeno una parola. Quando lei fece per replicare, lui la zittì.
«¡Edwina, por favor!»
La signora Gerardi si strinse una mano con l'altra, invertì la presa, la invertì ancora, finché le nocche non spiccarono bianche sotto la pelle rosa e screpolata. Le lessi una certa titubanza nello sguardo, ma per un attimo credetti che avrebbe replicato. Invece, la donna si morse le labbra e si ritirò.
Il signor Gerardi indicò due poltrone in pelle di fronte alla scrivania.
«Prego.»
Sedetti. La pelle aveva l'odore di una Jaguar nuova. Almeno, così immaginai, visto che su un'auto simile non ci ero mai salita.
Galiano rimase in piedi. Gerardi fece altrettanto.
«Direi che questo incontro è inutile, a meno che non abbiate qualche novità» disse Gerardi con le braccia rigide lungo i fianchi.
«Che ne dice di uno scheletro?» Dal tono, capii che Galiano era irritato.
Il nostro ospite non mostrò alcuna reazione.
«Lucy aveva qualche motivo per trovarsi nella Zona Uno?» domandò il tenente.
«Ho già chiarito nella mia deposizione che mia figlia non frequentava locali pubblici. Andava...» Fece una pausa. Si corresse. «Frequenta la scuola, la chiesa e il nostro club.»
«Per caso le è venuto in mente il nome di qualche amica o amico di cui potrebbe avervi parlato? Magari qualche compagno di scuola?»
«Ho già risposto a questa domanda. Mia figlia non è una ragazzina frivola.»
«Lucy era amica di Chantale Specter?»
«Si vedevano ogni tanto.»
«Che cosa facevano insieme?»
«È tutto nella mia deposizione.»
«Me lo ripeta.»
«Studiavano, guardavano film, nuotavano, giocavano a tennis. L'ambasciatore e io siamo iscritti allo stesso club privato.»
«Suo figlio dov'è, signor Gerardi?»
«Mario sta prendendo una lezione di golf.»
«Ah. E... mi dica, Chantale Specter trascorreva molto tempo in casa vostra?»
«Vorrei chiarirle un concetto, tenente. Nonostante la posizione del padre di Chantale, non ho mai incoraggiato l'amicizia tra mia figlia e quella ragazza.»
«E perché?»
Gerardi ebbe un istante di esitazione.
«Chantale Specter è una ragazza confusa.»
«Confusa?»
«Non credo che abbia un buon ascendente su Lucy.»
«E che cosa mi dice dei ragazzi?»
«Non permetto a mia figlia di uscire con i ragazzi.»
«Immagino che sua figlia fosse felicissima di questo.»
«Mia figlia non discute le mie regole.»
Appoggiai le mani in grembo e abbassai lo sguardo. Lucy, pensai. Tua figlia si chiama Lucy, razza di stronzo gelido e arrogante.
«Certo.» Galiano sorrise cinicamente. «Per caso le è venuto in mente qualche particolare utile, dopo la nostra ultima conversazione?»
«Non so più di quanto non sappia lei. Gliel'avevo già chiarito al telefono.»
«E io avevo specificato che oggi volevo parlare con Mario.»
«Le lezioni di golf sono prenotate con mesi di anticipo.»
«In tal caso... Non vorrei mai compromettere il chip shot del ragazzo.»
Gerardi controllò a stento un moto di rabbia.
«Se devo esser sincero, tenente, speravo che mi portasse qualche novità. Le indagini ormai si trascinano da più di quattro mesi. Per mia moglie e mio figlio è una sofferenza insopportabile. La vostra recente aggressione ai nostri animali è stata un atto di barbarie.» Immaginai che si riferisse alla raccolta dei campioni di pelo da parte della polizia.
Galiano fece schioccare la lingua. «Vorrà dire che parlerò con lo schnauzer.»
«Non si azzardi a prendersi gioco di me, tenente.»
Galiano si sporse sulla scrivania e portò la faccia a pochi centimetri da quella di Gerardi.
«E io la prego di non sottovalutarmi, señor.»
Galiano indietreggiò.
«Troverò Lucy» disse, fissando gelido il padrone di casa. «Con o senza la sua collaborazione.»
«Io le ho fornito la più ampia collaborazione, tenente, e sono risentito per le sue insinuazioni. Nessuno è più preoccupato di me per le sorti di mia figlia.»
Fuori della stanza, un orologio batté le ore con un rintocco profondo. Fu Galiano a rompere il silenzio.
«Da questa mattina mi ronza in testa un pensiero.»
La faccia di Gerardi era una porta chiusa.
«Quando le ho detto che abbiamo ritrovato uno scheletro, lei ha dimostrato lo stesso interesse che si riserva alle previsioni del tempo.»
«Suppongo che se questo scheletro avesse avuto rilevanza con la scomparsa di mia figlia me lo avrebbe detto.» Un velo color porpora stava salendo oltre il colletto immacolato del signor Gerardi.
«Si direbbe che lei faccia molte supposizioni sulla vita di sua figlia.»
«Insomma, questa persona che avete trovato, è mia figlia o no?» Le labbra di Gerardi erano pallide di rabbia.
Galiano non replicò.
«È chiaro che non lo sapete.»
Di nuovo mi sentii avvampare di imbarazzo. Giusto, signor Gerardi, non lo sappiamo perché non mi sentivo in forma e mi sono lasciata intimidire da un paio di lenti rosa.
Gerardi si impettì ancor più di prima, ammesso che fosse possibile. «Credo sia tempo di congedarci.»
«Buenos días, señor Gerardi.» Galiano mi rivolse un cenno del capo. «Regresaré.» Tornerò.
E si diresse verso la porta.
Io mi alzai e lo seguii.
«¡Hijo de la gran puta!» Galiano girò una manopola sulla radio della polizia. Le scariche di elettricità statica diminuirono.
«Mi dica quello che pensa veramente di quell'uomo.»
«È uno stronzo autoritario, borioso e pieno di sé.»
«Non si trattenga.»
«Quale genitore considera le amicizie di una figlia adolescente una cosa frivola?» La voce di Galiano trasudava disprezzo.
«Esattamente quello che penso io. Che cosa fa il paparino per potersi permettere Mercedes e tappeti beshir?»
«Gerardi e il fratello sono proprietari del più grosso concessionario di auto del Guatemala.»
Stavamo recandoci alla residenza dell'ambasciatore.
«Però ha ragione.» Lasciai un'impronta sul cruscotto con l'indice, poi la cancellai con il palmo della mano. «Non sappiamo nulla di quello scheletro.»
«Presto ne sapremo di più.»
Lasciai un'altra impronta.
«Crede che Lucy fosse ubbidiente come pensa il padre?»
Galiano rovesciò il palmo della mano e sollevò spalle e sopracciglia: un gesto molto francese per un poliziotto guatemalteco.
«Chi lo sa. Ma l'esperienza ci suggerisce che non è quasi mai così.»
Altre due impronte. Al di là del finestrino sfrecciavano gli alberi. Dopo diverse svolte, imboccammo una via di grandi ville circondate da giardini ampi e curati dalla mano di un professionista. Quasi sempre, si riusciva a vedere solo un tetto di tegole rosse.
«Però Gerardi potrebbe aver ragione almeno su una cosa.»
«E cioè?» domandai.
«Chantale Specter.»
L'ambasciatore e la sua famiglia vivevano dietro siepi identiche a quelle che circondavano la proprietà dei Gerardi. E anche dietro un recinto elettrificato, interrotto da un enorme cancello elettrico scorrevole in ferro battuto. Protetto da due guardie in uniforme.
Galiano svoltò nel vialetto e mostrò il tesserino di riconoscimento alla guardia numero uno. L'uomo si avvicinò, poi entrò nel gabbiotto che ospitava il quadro dei comandi. Dopo qualche secondo il cancello si aprì.
Seguendo l'ampia curva di un viale, arrivammo di fronte alla villa e scendemmo dall'auto. La guardia numero due esaminò il tesserino. Soddisfatta, suonò il campanello. Il portoncino si aprì e la guardia ci affidò a un domestico.
«La signora Specter vi attende.» L'uomo ci guardò senza guardarci. «Vi prego di seguirmi.»
Ci trovammo in un ambiente che era la copia di quello dei Gerardi. Studio rivestito in legno, pavimenti ricercati, mobili pregiati, objets d'art. Questa volta il tappeto era un bakhtiari.
L'incontro invece non poteva essere più diverso.
La signora Specter aveva capelli ramati, e labbra e unghie color lacca cinese. Indossava un completo pantalone tre pezzi in seta color girasole, e sandali in tinta. Ci venne incontro avvolta nel movimento di quel leggerissimo e fluttuante tessuto. E da una nuvola di Issey Miyaki.
«Tenente Galiano, vederla è sempre un piacere.» Accento francese. «Anche se ovviamente preferirei incontrarla in circostanze meno dolorose.»
«Come sta oggi, signora Specter?» Racchiuse nella mano scura del tenente, le dita della donna sembrarono di un pallore mortale.
«Sto bene, grazie.» La signora Specter si voltò e mi sorrise. Un sorriso studiato. «È questa la signora di cui mi ha parlato?»
«Tempe Brennan» mi presentai.
Le unghie lacca cinese puntarono verso di me. La pelle delle sue mani era così morbida che ebbi la sensazione di stringere la mano di un bambino.
«La ringrazio infinitamente per essersi resa disponibile alle autorità locali. Per me e mio marito questo significa molto.»
«Spero di essere d'aiuto.»
«Vogliate scusare la mia scortesia.» Si portò una mano al petto, e con l'altra ci fece un cenno. «Vi prego, sediamoci.»
La seguimmo fino all'angolo conversazione, ricavato in un angolo sul lato destro della stanza. Le finestre erano schermate da imposte di legno che filtravano il sole del mattino.
«Gradite un tè o un caffè?» spostò lo sguardo da Galiano a me.
Non prendemmo niente.
«Allora, tenente, la prego di dirmi che avete buone notizie.»
«Temo di no, signora» si affrettò a rispondere Galiano. «Volevo solo farmi vivo, verificare alcuni fatti e sapere se dalla nostra ultima conversazione era successo qualcosa di nuovo.»
La donna appoggiò una mano sul bracciolo, e si abbandonò contro lo schienale della poltrona.
«Ho cercato di ricordare, mi creda tenente, mi sono sforzata, ma a parte quel che le ho già raccontato, non mi è venuto in mente altro.»
Nonostante il suo impegno, non riuscì a continuare a sorridere. E iniziò a tirare nervosamente uno dei fili che spuntavano dal rivestimento della poltrona.
«La notte rimango sveglia a ripensare all'infinito a tutto quello che è successo nell'ultimo anno. È... è duro ammetterlo, ma è ovvio che mi sono sfuggite molte cose che pure accadevano davanti ai miei occhi.»
«Chantale si era messa su una cattiva strada.» Il tono di Galiano era distante una galassia da quello adottato con i Gerardi. «Come lei ha detto, la ragazza era tutt'altro che aperta con lei e con suo marito.»
«Avrei dovuto essere più attenta. Più ricettiva.»
Dentro l'aureola di capelli ramati, il viso della donna era cereo. Un'unghia rosso lacca tormentava i fili della poltrona, come se rispondesse a una volontà tutta sua.
Il cuore mi doleva per lei, e cercai di confortarla con qualche parola.
«Non si senta in colpa, signora Specter. Nessuno di noi è in grado di controllare completamente i propri figli.»
Lo sguardo della donna si spostò su di me. Nonostante la penombra, notai che i suoi occhi avevano il verde intenso delle lenti a contatto colorate.
«Lei ha figli, dottoressa Brennan?»
«Sì, ho una figlia che studia all'università. E so bene come riescano a essere difficili gli adolescenti.»
«Già.»
«Possiamo rivedere insieme alcune cose, signora Specter?» chiese Galiano.
«Se può essere d'aiuto.»
Il tenente prese un taccuino e iniziò a citare nomi e date, mentre la donna continuava inconsapevolmente a tormentare i fili della poltrona, ora tirandoli, ora lisciandoli.
«Il primo arresto di Chantale è avvenuto nel novembre dell'anno scorso.»
«Sì.» Tono neutro.
«All'Hotel Santa Lucia, nella Zona Uno.»
«Sì.»
«Il secondo arresto è stato in luglio.»
«Sì.»
«All'Hotel Bella Vista.»
«Sì.»
«Da agosto a dicembre dello scorso anno Chantale è stata in Canada a curare la sua tossicodipendenza.»
«Sì.»
«In una comunità vicino a Chibougamau.»
Mentre osservavo la caduta di uno dei fili strappati dalla signora, d'un tratto sentii una strana elettricità percorrere i miei neuroni. Guardai Galiano. Non sembrò essersi accorto di nulla.
«È in Québec?»
«In realtà è una specie di campeggio a diverse centinaia di chilometri a nord di Montréal.»
Una volta ero stata a Chibougamau in aereo per una esumazione. La regione era così boscosa che dall'alto avevo avuto l'impressione di vedere una distesa di broccoli.
«Il programma di recupero insegna ai ragazzi ad assumersi la responsabilità del loro abuso di droga. L'impatto può essere molto duro. Ma io e mio marito avevamo deciso che quel metodo, anche se un po' spartano, era il migliore.» Ci rivolse una pallida versione del suo sorriso da moglie del diplomatico. «L'isolamento e la lontananza del luogo garantiscono che i partecipanti completino la terapia.»
Le domande di Galiano proseguirono per diversi minuti. Io mi concentrai sulle unghie laccate. Infine il tenente chiese: «Vuole farmi qualche domanda, signora Specter?».
«Che cosa mi può dire di queste ossa che avete ritrovato?»
Galiano non fu sorpreso di scoprire che la signora sapeva dello scheletro della Pensión Paraíso. Sicuramente le conoscenze del marito la aiutavano a tenersi ben informata.
«Stavo per parlargliene, anche se non sarò in grado di dirle molto, finché la dottoressa Brennan non terminerà le sue analisi.»
«E lei, non può dirmi niente?» Il suo sguardo si spostò su di me.
Esitai, restia a commentare il ritrovamento sulla base di qualche fotografia e dell'esame affrettato che avevo fatto sul bordo della fossa biologica.
«Proprio niente, dottoressa?» Supplichevole.
Il mio cuore di madre entrò in conflitto con il mio cervello di scienziata. E se al posto di Chantale ci fosse Katy? Se ci fossi io seduta su quella poltrona a tormentare i fili?
«Dubito che lo scheletro possa essere quello di sua figlia.»
«Perché?» Il tono era calmo, ma le dita si muovevano sempre più nervosamente.
«Sospetto che la persona non sia di razza caucasoide.»
La donna mi fissò, e dietro i brillanti occhi verdi vidi tutti i pensieri che le affollavano la mente.
«Guatemalteca?»
«Probabilmente. Ma finché non avrò completato gli esami, la mia resta solo un'impressione.»
«E quando riuscirà a completarli?»
Mi voltai verso Galiano.
«Abbiamo avuto un intoppo burocratico» spiegò il tenente.
«E cioè?»
Galiano le raccontò di Díaz.
«Ma perché il giudice ha fatto questo?»
«Non è ancora chiaro.»
«Spiegherò la situazione a mio marito.»
Quindi la donna si rivolse a me.
«Lei è una persona sensibile, dottoressa Brennan. Glielo si legge in viso. Merci.»
Sorrise. Era di nuovo la moglie dell'ambasciatore.
«Davvero non desiderate qualcosa da bere? Magari una limonata?»
Galiano rifiutò ancora.
«Potrei disturbarla per un bicchiere d'acqua?»
«Ma certo.»
Quando la signora Specter si fu allontanata, mi avvicinai rapidamente alla scrivania, staccai un pezzo di nastro adesivo da un rotolo che avevo notato poco prima e tornai alla poltrona dov'era seduta la padrona di casa. Quindi premetti l'adesivo sul sedile. Galiano mi osservò senza commentare.
La signora tornò nello studio portando un bicchiere di cristallo colmo di acqua e ghiaccio e decorato con una fettina di limone infilata sul bordo. Mentre bevevo, parlò con Galiano.
«Mi spiace molto non poterle dire nient'altro, tenente. Mi sto sforzando di ricordare. Mi creda, sto facendo il possibile.»
Nell'atrio, mi sorprese con una richiesta.
«Ha un biglietto da visita, dottoressa Brennan?»
Ne presi uno dalla borsa.
«La ringrazio.» Congedò con un cenno un domestico che si stava avvicinando. «È reperibile qui in Guatemala?»
Sorpresa, le lasciai il numero del cellulare che avevo preso a noleggio.
«La prego, tenente, la prego: ritrovi la mia bambina.»
Il pesante portoncino di quercia si richiuse alle nostre spalle.
Galiano non parlò finché non fummo in automobile.
«Allora, che significato avevano le grandi pulizie sulla poltrona?»
«Ha visto bene quella poltrona?»
Galiano si allacciò la cintura di sicurezza e quindi mise in moto.
«Aubusson. Costosa.»
Sollevai il nastro adesivo. «Quell'Aubusson è letteralmente coperta di peli.»
Il tenente si voltò verso di me, la mano sulla chiave di accensione.
«Gli Specter hanno detto di non tenere animali domestici.»
10
Trascorsi il sabato pomeriggio e l'intera domenica a esaminare gli scheletri di Chupan Ya. Anche Elena e Mateo lavoravano, e vennero ad aggiornarmi sugli sviluppi delle indagini di Sololá. Ci vollero cinque minuti.
Il corpo di Carlos aveva ottenuto il nulla osta. Il fratello era venuto in Guatemala per ritirarlo e riportarlo a Buenos Aires per la sepoltura. Mateo stava organizzando una cerimonia di commemorazione a Ciudad de Guatemala.
Elena il venerdì era stata in ospedale. Molly era sempre in stato comatoso. La polizia non aveva indizi utili.
Era tutto.
Mi portarono anche qualche notizia da Chupan Ya. Il giovedì sera, il figlio della signora Ch'i'p era diventato nonno per la quarta volta. Adesso l'anziana donna aveva sette pronipoti. Sperai che tutte quelle giovani vite portassero un po' di gioia nella sua.
Il laboratorio era immerso nella quiete del fine settimana. Niente chiacchiere. Niente radio. Niente ronzii e trilli di microonde.
Nessun Ollie Nordstern a insistere per un'intervista.
Eppure, non riuscivo a concentrarmi. Dentro di me si alternavano una girandola di sensazioni diverse. Nostalgia di casa, di Katy e di Ryan. Tristezza per i morti che riempivano gli scatoloni intorno a me. Preoccupazione per Molly. Senso di colpa per la mia mancanza di determinazione alla Pensión Paraíso.
Il senso di colpa prevaleva su tutto. E dopo essermi ripromessa che per le vittime di Chupan Ya avrei fatto più di quanto avevo fatto per la ragazza nella fossa biologica, continuai a lavorare ben oltre l'orario in cui Elena e Mateo lasciarono il laboratorio.
Il corpo numero 14 era una ragazza tardo adolescente, con fratture multiple alla mandibola e al braccio destro, e segni di machete nella parte posteriore della testa. I mutanti che avevano fatto quello scempio non andavano tanto per il sottile.
Mentre esaminavo quelle ossa delicate, i miei pensieri tornarono più volte alla vittima della Pensión Paraíso. Due ragazze uccise a una ventina d'anni di distanza. Possibile che le cose non debbano cambiare mai? La mia tristezza si fece palpabile.
Il reperto numero 15 era il corpo di un bambino di cinque anni. E poi parlano di porgere l'altra guancia.
Galiano mi chiamò la domenica sera. Hernández non aveva saputo granché dai genitori di Patricia Eduardo e di Claudia De la Alda. L'unico ricordo della signora Eduardo era che alla figlia non piaceva un dirigente dell'ospedale, con cui la ragazza aveva avuto un diverbio poco prima della sua scomparsa. Non ricordava il nome della persona, né se fosse un uomo o una donna.
Il signor De la Alda si era detto convinto che la figlia fosse dimagrita prima di scomparire. La signora De la Alda non era d'accordo. Il museo aveva chiamato per informarli che non potevano più tenere il posto alla figlia e avrebbero assunto una sostituta.
Il lunedì passai al corpo numero 16, una ragazza pubere con i secondi molari in eruzione. Stimai che fosse alta circa un metro e tredici centimetri. Le avevano sparato e poi l'avevano decapitata con un colpo di machete.
A mezzogiorno arrivai alla centrale di polizia, e insieme a Galiano andai alla Sezione Tracce e Indizi del laboratorio forense. Ci accolse un ometto calvo curvo su uno stereoscopio. Quando Galiano lo salutò, l'uomo ruotò la sedia verso di noi, fissandosi gli occhialini cerchiati d'oro dietro gli orecchi da scimpanzé.
Il primate si presentò come Fredi Minos, uno dei due specialisti in analisi di peli, capelli e fibre. A Minos erano arrivati i campioni prelevati sui jeans ritrovati nella fossa biologica, nelle case degli Eduardo e dei Gerardi, e sulla poltrona della signora Specter.
«È un wooky, giusto?»
Minos lo guardò perplesso.
«Chewbacca?»
Nessuna reazione.
«Le dice niente Guerre Stellari?»
«Ah, sì. Il film americano.»
«Lasciamo perdere. Allora, che cosa ha scoperto?»
«Il vostro campione sconosciuto è pelo di gatto.»
«Come fa a esserne sicuro?»
«Che è un pelo o che è di gatto?»
«Che è di gatto» mi intromisi, vedendo l'espressione di Galiano.
Minos ruotò la sedia verso destra e prese un vetrino da un raccoglitore appoggiato sul piano di lavoro. Quindi tornò al microscopio e infilò il vetrino sotto l'oculare. Dopo aver regolato la messa a fuoco, si alzò e mi invitò a sedermi al suo posto.
«Dia un'occhiata.»
Lanciai uno sguardo a Galiano. Lui mi fece cenno di sedermi.
«Preferisce che parli inglese?» domandò Minos.
«Se per lei non è un problema.» Mi sentii un po' tonta, ma il mio spagnolo era molto incerto e non volevo perdere nulla della spiegazione.
«Che cosa vede?»
«Si direbbe un cavo con un'estremità arrotondata.»
«Lei sta guardando un pelo non tagliato. È uno dei ventisette esemplari presenti sul campione etichettato PARAÍSO.»
In inglese, Minos aveva una bizzarra cadenza altalenante che ricordava un organetto a vapore.
«Ha notato che il pelo non ha una forma peculiare?»
«Peculiare?»
«Per alcune specie, la forma del pelo è un ottimo segno distintivo. Nel cavallo il pelo è ruvido, con una piega netta vicino alla radice. Nel cervo invece ha un aspetto stropicciato, con la radice sottile. Molto peculiare. I peli della Pensión Paraíso sono molto diversi.» Si sistemò gli occhiali. «Adesso osservi la distribuzione del pigmento. Nota niente di peculiare?»
A Minos la parola «peculiare» piaceva molto.
«Sembra piuttosto omogenea» dissi.
«Infatti lo è. Posso?»
Estrasse il vetrino, si spostò davanti a un microscopio ottico a luce trasmessa, lo inserì e regolò la messa a fuoco. Scivolai lungo il piano di lavoro senza alzarmi dalla sedia e guardai nell'oculare. Il pelo adesso sembrava un tubo spesso con l'interno molto stretto.
«Mi descriva la cavità midollare» suggerì Minos.
Osservai la parte centrale e cava, cioè la regione analoga alla cavità midollare di un osso lungo.
«Assomiglia a una scala a pioli.»
«Ottimo. La forma della cavità midollare è estremamente variabile. In alcune specie è bipartita, in altre può anche essere pluripartita. La famiglia dei lama è un buon esempio. Molto peculiare. I lama inoltre tendono ad avere ampi aggregati di pigmento. Quando vedo quella combinazione, penso immediatamente ai lama.»
Lama?
«I vostri campioni hanno un midollo a scala unica. Che è ciò che lei sta vedendo.»
«E questo significa che è un pelo di gatto?»
«Non necessariamente. Bovini, capre, cincillà, visoni, topi muschiati, tassi, volpi, castori, cani... per la verità sono davvero tante le specie che hanno il midollo a scala unica nei peli sottili. Il topo muschiato però ha una configurazione a squame a V capovolta, quindi posso dire che non si tratta di topo muschiato.»
«Squame?» domandò Galiano. «Come i pesci?»
«Per la verità, sì. Tra un po' vi spiegherò la storia delle squame. Nei peli di bovino spesso la distribuzione del pigmento è striata, e spesso presenta aggregati ampi, quindi ho eliminato anche i bovini. Le squame poi non sono adeguate per la capra.»
Minos sembrava parlare più a se stesso che a noi, come se stesse ripassando a voce alta il processo mentale utilizzato per le sue analisi.
«Ho escluso anche il tasso per via della distribuzione del pigmento. Poi ho eliminato...»
«Señor Minos, potrebbe dirci che cosa non ha eliminato, invece?» lo interruppe Galiano.
«I cani.» Minos sembrò offeso per lo scarso interesse mostrato dal tenente per il pelo dei mammiferi.
«Ay, Dios.» Galiano si lasciò sfuggire un sospiro. «E come si sa, è molto raro trovare peli di cane sui vestiti.»
«Oh, no, è molto, molto comune.» Minos non aveva colto il sarcasmo di Galiano. «Quindi ho deciso di fare un controllo incrociato sulle mie conclusioni.»
Minos andò a una scrivania ed estrasse una cartellina da un cassetto a schedario.
«Una volta che ho escluso tutti gli animali, tranne il cane e il gatto, ho misurato i campioni e ho seguito quella che io chiamo una analisi percentuale midollare.»
Prese un tabulato dalla cartellina e lo posò sul piano di lavoro, accanto a me.
«Poiché è così frequente trovare peli di cane e di gatto sulla scena di delitti e ritrovamenti, ho fatto un po' di ricerca su come è possibile operare una distinzione tra l'uno e l'altro. In altre parole, ho misurato centinaia di peli di gatto e di cane e ho creato un database.»
Cambiò foglio e indicò un diagramma a punti sparsi diviso in due da una linea diagonale. La linea separava decine di triangoli nella parte superiore da decine di cerchi nella parte inferiore. Solo pochi simboli attraversavano il Rubicone metrico.
«Per calcolare la percentuale midollare divido la larghezza del midollo per la larghezza del pelo. In questo grafico ho inserito questa cifra, espressa in percentuale, confrontata con la larghezza del pelo, espressa in micron. Come potete vedere, tranne poche eccezioni, i valori del gatto si raccolgono intorno a una certa soglia, mentre i valori del cane sono inferiori.»
«Questo significa che il midollo è relativamente più largo nel pelo del gatto.»
«Sì.» Minos mi guardò compiaciuto, come un insegnante con uno studente preparato. Poi indicò un coagulo di asterischi tra lo sciame di triangoli al di sopra della linea diagonale.
«Questi punti rappresentano i valori di alcuni peli scelti a caso nel campione della Pensión Paraíso. E tutti rientrano perfettamente nei parametri dei peli di gatto.»
Minos cercò nella cartellina e ne estrasse alcune stampe a colori.
«Ma poco fa lei mi ha chiesto di parlarle delle squame, tenente. Volevo una buona immagine dell'architettura superficiale, così ho infilato qualche pelo del campione Paraíso nel microscopio a scansione elettronica.»
Minos mi passò una fotografìa tredici per diciotto. Galiano si sporse in avanti da dietro le mie spalle.
«Questa è l'estremità della radice di un pelo del Paraíso ingrandito quattrocento volte. Guardate la superficie esterna.»
«Sembra il pavimento di un bagno» osservò Galiano.
Minos ci mostrò un'altra foto. «Questa ritrae una zona a circa metà del pelo.»
«Petali di fiore.»
«Bravo, tenente.» Questa volta fu lui il destinatario dello sguardo compiaciuto. «Quello che lei ha così precisamente descritto è ciò che noi chiamiamo "progressione della configurazione delle squame". In questo caso, le squame passano da una configurazione che noi chiamiamo "a mosaico irregolare" a una configurazione che noi chiamiamo "a petalo".»
Minos era quello che noi chiamiamo un fanatico del gergo scientifico. Ma certo conosceva bene i suoi peli.
Foto numero tre. Adesso le squame ricordavano un nido d'ape, e i margini erano più irregolari.
«Questa è la punta del pelo. Qui le squame assumono una configurazione "a mosaico regolare". E i bordi sono più frastagliati.»
«Che relazione c'è tra tutto questo e il nostro discorso su cani e gatti?»
«Nei cani, la progressione della configurazione delle squame è molto varia, ma, a mio parere, la configurazione che vi ho appena mostrato è tipica del gatto.»
«Quindi i peli trovati sui jeans sono di un gatto.» Galiano cercò di stringere.
«Sì.»
«E appartengono tutti allo stesso animale?» domandai.
«Non ho rilevato niente che suggerisca il contrario.»
«E il campione preso dagli Specter?»
Minos sfogliò nella sua cartellina.
«Sarebbe il campione numero quattro.» Mi sorrise. «Gatto.»
«Quindi sono tutti peli di felino.» Riflettei qualche istante. «Il campione della Pensión Paraíso è coerente con uno degli altri tre?»
«Qui il discorso diventa interessante.»
Minos prese un altro foglio e scorse rapidamente il testo.
«Nel campione numero due, la lunghezza media dei peli era maggiore rispetto a quella rilevata negli altri campioni.» Alzò lo sguardo. «Più di cinque centimetri, che è un pelo molto lungo.» Riportò gli occhi sulla pagina. «Inoltre, i peli erano in gran parte del tipo sottile.» Sollevò di nuovo lo sguardo. «Nel senso di non ruvido.» Occhi sulla pagina. «E l'architettura di superficie di ciascun pelo presentava contemporaneamente la configurazione a mosaico regolare a margine liscio e quella a squame coronali, sempre a margine liscio.»
Minos chiuse la cartellina, ma non offrì alcuna spiegazione.
«Che cosa significa, señor Minos?» domandai.
«Che il campione numero due proviene da un gatto diverso rispetto agli altri tre campioni. La mia supposizione, ma è solo una supposizione e non risulterà nel mio parere scritto, è che il gatto numero due sia un persiano.»
«E gli altri campioni non appartengono a gatti persiani?»
«Sono peli di lunghezza standard.»
«Ma il campione prelevato alla Pensión Paraíso è coerente con gli altri due campioni?»
«Sì, è coerente.»
«Com'era etichettato il campione numero due?»
Di nuovo Minos dovette consultare la sua cartellina.
«Eduardo.»
«Quindi si tratta di Ranuncolo.»
«Persiano?» Minos e io domandammo all'unisono.
Galiano annuì.
«Quindi Ranuncolo non è il donatore dei peli della Pensión Paraíso» dissi.
«Diciamo che un gatto persiano non è il donatore dei peli della Pensión Paraíso» mi corresse Minos.
«Questo mette Ranuncolo al sicuro. Che mi dice dei gatti dei Gerardi o degli Specter?»
«Possibili candidati.»
Mi sentii pervadere da un'ondata di ottimismo.
«Insieme al milione di altri gatti a pelo corto di Ciudad de Guatemala» aggiunse.
Il mio ottimismo precipitò come un ascensore in caduta libera.
«Può stabilire se uno degli altri campioni corrisponde ai peli trovati sui jeans?» domandò Galiano.
«Presentano entrambi caratteristiche simili. Ma l'individuazione basata sulle sole caratteristiche morfologiche è impossibile.»
«E con l'esame del DNA?» domandai.
«È un test che si può fare.»
Minos gettò la cartellina sul piano di lavoro, si tolse gli occhiali e iniziò a pulirli con l'orlo del camice.
«Ma non qui.»
«Perché?»
«Abbiamo sei mesi di arretrati negli esami dei tessuti di esseri umani. Farete in tempo a compiere un altro anno prima di ricevere i risultati del test sul pelo di un gatto.»
Stavo riflettendo su quell'affermazione, quando il cellulare di Galiano trillò.
Mentre ascoltava, notai che il suo viso diventava sempre più teso.
«¡Ay, Dios mio! ¿Dónde?»
Seguì un silenzio lungo almeno un minuto, poi gli occhi del tenente incrociarono i miei. Quando riprese a parlare, era passato all'inglese.
«Perché non mi avete chiamato prima?»
Lunga pausa.
«Xicay è già lì?»
Altra pausa.
«Arriviamo.»
11
Alle tre del pomeriggio le strade erano già intasate. Galiano si fece strada a colpi di fari e di sirena, mentre gli automobilisti si facevano da parte per aprirci un passaggio. Procedevamo a tutta velocità e il tenente non accennava a rallentare nemmeno agli incroci.
Dalla radio arrivavano raffiche di lingua spagnola. Non riuscivo a seguire, ma non m'importava. Pensavo a Claudia De la Alda, con le sue gonnelline nere e le camicette pastello. Cercai di ricordare l'espressione che aveva nelle fotografie, ma non ci riuscii.
Invece altre immagini affiorarono dal passato. Sepolture poco profonde. Corpi putrefatti arrotolati nei tappeti. Scheletri coperti da foglie secche. Abiti marci sparpagliati dagli animali.
Un cranio pieno di liquami.
Mi si annodò lo stomaco.
I volti distrutti dei genitori. La figlia è morta e io sto per dar loro la tragica notizia. Sono sconvolti, addolorati, increduli, furenti. Che compito orribile comunicare il decesso di un congiunto.
Maledizione! Stava succedendo ancora!
Mi sentii il cuore martellare sotto le coste.
Maledizione! Maledizione! Maledizione!
La signora De la Alda aveva ricevuto una telefonata più o meno quando io stavo uscendo per la consulenza sui peli di gatto. Una voce maschile aveva detto che Claudia era morta e dato indicazioni su dove ritrovarla. In preda a una crisi isterica, la donna aveva chiamato Hernández. Che aveva contattato Xicay. La Scientifica aveva trovato lo scheletro in un dirupo all'estremità occidentale della città.
«Che altro le ha detto Hernández?» domandai.
«La chiamata proveniva da una cabina telefonica.»
«Dove?»
«Dalla stazione dei pullman che si trova a Cobán, nella Zona Uno.»
«Che cosa ha detto la persona che ha chiamato?»
«Ha detto che il cadavere si trova nella Zona Sette. Poi ha dato indicazioni e ha riappeso.»
«Vicino al sito archeologico?»
«Sulla gradinata posteriore.»
La Zona Sette è un tentacolo della città arrotolato intorno alle rovine di Kaminaljuyu, un'antica città maya che al suo apice contava più di trecento tumuli, tredici corti per il ballo, e cinquantamila residenti. Diversamente dai maya delle pianure, i costruttori di Kaminaljuyu avevano preferito i mattoni di fango alla pietra, scelta che in seguito si era rivelata poco felice, dato il clima tropicale della regione. Infatti l'erosione, unita all'espansione urbana, aveva lasciato il segno, e ormai dell'antica metropoli non restavano che una serie di collinette coperte di terra, meta ideale per gli innamorati e i giocatori di frisbee.
«Claudia lavorava al Museo Ixchel. Lei crede che ci sia un legame?»
«Se c'è lo scoprirò di sicuro.»
Un tanfo nauseante filtrò nell'abitacolo mentre superavamo la discarica.
«La signora De la Alda ha riconosciuto la voce?»
«No.»
Mentre sfrecciavamo attraverso la città, i quartieri diventavano sempre più fatiscenti. Infine, Galiano svoltò in una via secondaria fiancheggiata da comedores e spacci alimentari. Superammo case malridotte con verande cadenti e fili di bucato steso ad asciugare. Quattro isolati dopo, la via finiva in un incrocio che immetteva in un vicolo cieco in entrambe le direzioni.
Svoltammo a sinistra e ci trovammo di fronte a una scena tristemente familiare. Lungo il marciapiede erano parcheggiate volanti della polizia con radio accese e luci lampeggianti; sul lato opposto, aspettava il furgone dell'obitorio. Dietro, un parapetto di metallo e oltre il parapetto, il ripido pendio di un barranco. Venti metri più avanti, il manto stradale finiva davanti a uno sbarramento a catena. Il nastro giallo con cui si delimitava la scena di un delitto o il sito di un ritrovamento racchiudeva un ampio quadrato che occupava una parte del dirupo.
Agenti in uniforme si spostavano all'interno dell'area recintata. All'esterno, un gruppetto di uomini osservava la situazione, impugnando chi la macchina fotografica, chi penna e taccuino. Dietro di noi, notai le automobili e il furgone dell'emittente televisiva. Gli occupanti aspettavano dentro e fuori i loro mezzi, fumando, chiacchierando, sonnecchiando.
Quando Galiano e io chiudemmo le portiere, gli obiettivi furono puntati verso di noi e i giornalisti si avvicinarono.
«Señor, está...»
«Agente Galiano...»
«Una pregunta, porfavor...»
Eludendo l'assalto, sgusciammo sotto il nastro giallo e ci avvicinammo al dirupo. Otturatori e domande schioccarono alle nostre spalle.
Hernández si trovava a cinque o sei metri sotto di noi. Galiano cominciò a scendere con cautela, cercando il posto giusto dove mettere i piedi, e io lo seguii facendo altrettanto.
In quel punto il fianco della collina era quasi interamente coperto di erba e sterpaglie, ma era molto ripido e il terreno era disseminato di sassi. Mi aiutai nella discesa poggiando i piedi di traverso, abbassando il baricentro e afferrandomi alle piante. Non volevo storcermi una caviglia, né scivolare.
Il ramo di un cespuglio mi si spezzò tra le mani, e una cascata di sassi scivolò lungo il pendio con un rumore secco. Sopra di me, uno stormo di uccelli protestò sonoramente per l'intrusione.
Sentivo le scariche di adrenalina attraversarmi tutto il corpo. Potrebbe non essere lei, mi dissi.
A ogni passo, il tanfo nauseante e dolciastro si faceva sempre più forte.
Tre metri sotto, il terreno diventava piano, prima di tuffarsi nella discesa finale.
Poteva essere la telefonata di un maniaco, pensai, raggiungendo il piccolo spiazzo pianeggiante. La scomparsa di Claudia De la Alda è finita su tutti i giornali.
Mario Colom stava perlustrando il terreno con il metal detector. Juan-Carlos Xicay fotografava qualcosa ai piedi di Hernández. Come alla Pensión Paraíso, i tecnici indossavano tuta e cappellini.
Galiano e io ci avvicinammo a Hernández.
Il cadavere giaceva in un canale di scolo per l'acqua piovana, sistemato nel punto in cui il pendio e lo spiazzo si incontravano. Era coperto di fango e foglie, adagiato su un sacco nero di plastica. Il corpo era già scheletrizzato, ma le ossa erano tenute insieme da residui di muscoli e di legamenti.
Un'occhiata e dovetti trattenere il respiro.
Le ossa del braccio spuntavano come due rametti secchi dalle maniche di una camicetta azzurra. Le ossa della gamba emergevano da una gonnellina nera e scomparivano dentro calze e scarpe sporche di fango.
Maledizione! Maledizione! Maledizione!
«Il cranio è un po' più avanti.» La fronte di Hernández era coperta da una patina lucida, il viso era rosso, la camicia appiccicata al petto come la toga di una scultura romana.
Mi accovacciai. Un nugolo di mosche si alzò in volo, mentre i raggi del sole colpivano i loro corpi d'insetti facendoli scintillare di verde. I tessuti ormai corificati erano trivellati da piccole perforazioni tondeggianti, le ossa segnate da solchi appena accennati. Mancava una mano.
«Decapitata?» domandò Hernández.
«No, sono stati gli animali» risposi.
«Che genere di animali?»
«Piccoli carnivori. Forse procioni.»
Galiano si accovacciò accanto a me. Incurante del tanfo di carne in putrefazione, si tolse una penna di tasca e la usò per sollevare una catenina dalle vertebre del collo. Il sole scintillò su una croce d'argento.
Lasciò ricadere la catenina al suo posto, si alzò e osservò i dintorni.
«Probabilmente qui non troveremo molto.» I muscoli della mandibola ebbero un guizzo.
«Non dopo dieci mesi» concordò Hernández.
«Perlustrate l'intera zona con tutto quello che abbiamo a disposizione.»
«Bene.»
«Cosa avete intenzione di fare con il quartiere?»
«Passiamo porta per porta, ma dubito che otterremo granché. È probabile che il cadavere sia stato scaricato di notte.»
Hernández indicò un vecchio che aspettava fuori del cordone giallo, in cima al dirupo.
«Il nonno vive a un isolato da qui. Dice di ricordare un'auto che l'estate scorsa andava su e giù da queste parti. L'ha notata perché questo è un vicolo cieco e non c'è molto passaggio. Dice che il guidatore è tornato due o tre volte, sempre di notte, sempre solo. Il vecchio aveva pensato che fosse un pervertito in cerca di un posto per masturbarsi, così si era tenuto a distanza.»
«Il nonno ti sembra affidabile?»
Hernández scrollò le spalle. «Probabilmente è un pervertito anche lui. Altrimenti perché gli sarebbe venuto in mente che il tizio voleva masturbarsi? In ogni caso, dice che la macchina era un vecchio modello. Forse una Toyota o una Honda. Non è sicuro. L'ha vista dalla sua veranda, quindi non è riuscito a distinguerla bene, e non è neanche riuscito a prendere la targa.»
«Trovato qualche effetto personale?»
Hernández scosse la testa. «È come per la ragazza della fossa biologica. Vestiti marci e nient'altro. Il delinquente deve aver buttato giù il cadavere dalla strada, quindi è possibile che abbia lanciato qualcosa in fondo al barranco. Xicay e Colom andranno a controllare, quando avremo finito qui.»
Gli occhi di Galiano si fermarono sulla piccola folla radunata sulla strada sopra di noi.
«Ai media non deve trapelare niente, ripeto, niente, finché non ho parlato con la famiglia.»
Poi si voltò verso di me.
«Che cosa vuole fare qui?»
Di certo non volevo ripetere l'errore grossolano che avevo commesso alla Pensión Paraíso.
«Avrò bisogno di un sacco mortuario e di alcune ore di tempo.»
«Faccia pure con calma.»
«Non troppo, però» dissi con un tono affilato dalle autorecriminazioni.
«Si prenda tutto il tempo di cui ha bisogno.»
Dal suo tono intuii che quella volta Díaz non mi avrebbe infastidita.
Presi un paio di guanti da chirurgo dal mio zaino, mi spostai al margine dello spiazzo, e avanzando carponi cominciai a perlustrare il canale di scolo setacciando le foglie e la terra con le mani. Come alla Pensión Paraíso, Xicay mi seguiva scattando con la sua Nikon.
Il cranio si trovava nel canale, a circa due metri dal collo del cadavere, spinto o trascinato da qualche animale finché la novità aveva perso il suo fascino. Accanto al cranio, una massa di capelli. A mezzo metro dai capelli, una fila di falangi portava a un gruppetto di ossa della mano.
Quando Xicay ebbe finito con le fotografie e io con la registrazione delle dislocazioni precise, riportai tutte le parti vicino al cadavere e terminai di esaminare il canale; dopodiché procedetti con la perlustrazione a griglia dello spiazzo, cioè lo percorsi avanti e indietro prima in una direzione, e poi nella direzione esattamente perpendicolare.
Niente.
Tornai allo scheletro, presi una torcia e orientai il fascio di luce sul corpo. Hernández aveva ragione. Dopo dieci mesi, dubitavo di poter trovare qualche traccia utile, ma sperai che la plastica avesse protetto il corpo, prima dell'intervento degli animali.
Ma non trovai nessun indizio.
Nonostante la mancanza di tracce, però, cercai di lavorare direttamente sopra l'involucro di plastica, in modo che se ci fossero stati frammenti, peli, capelli o fibre significative, li avremmo ritrovati una volta giunti in laboratorio.
Spostai la torcia di lato e sollevai la schiena dello scheletro. L'odore aumentò; scarafaggi e millepiedi schizzarono in ogni direzione. Sopra di me, Xicay continuava a scattare.
In una situazione climatica come quella dell'altopiano guatemalteco, un cadavere può scheletrizzarsi dopo alcuni mesi o dopo qualche settimana: a seconda che sia stato attaccato o meno da insetti o da animali saprofagi. Se il cadavere è ben sigillato, il processo di decomposizione può subire un rallentamento significativo e il tessuto connettivo può anche mummificare. Come in quel caso. Le ossa, infatti, erano tenute insieme piuttosto bene.
Studiai quel corpo massacrato, ripensando alle fotografìe della diciottenne Claudia De la Alda. Mi sentii i molari serrarsi gli uni contro gli altri.
Non questa volta, Díaz. Non questa volta.
Spostando in continuazione il peso per trovare una posizione più comoda, cominciai da quella che doveva essere la testa e proseguii fino ai piedi, un centimetro alla volta, totalmente concentrata nel mio lavoro. Il tempo passava, altre persone arrivavano e andavano via. Avevo la schiena e le ginocchia indolenzite. Gli occhi e la pelle mi prudevano a causa del polline, della polvere e degli insetti che mi volavano intorno.
A un certo punto mi accorsi che Galiano era andato via. Xicay e Colom spinsero le ricerche fino ai piedi del dirupo. Lavoravo da sola, raggiunta di tanto in tanto da una conversazione lontana, il canto di un uccello, una domanda gridata in cima al pendio.
Due ore dopo resti, involucro, capelli e vestiti giacevano in un sacco mortuario. Il crocifìsso era stato sigillato in una apposita bustina di plastica con cerniera. Il modulo dell'inventario scheletrico diceva che mi mancavano solo cinque falangi e due denti.
Questa volta, però, non mi ero limitata a identificare le ossa e a suddividerle in parte sinistra e parte destra, ma avevo analizzato a fondo ogni elemento dello scheletro.
Quei resti appartenevano a una femmina di circa vent'anni. Dalle caratteristiche cranio-facciali potevo supporre di razza mongoloide. Il radio destro presentava i segni di una ferita ben consolidata, e in quattro molari avevo rilevato altrettanti restauri.
Tuttavia non mi fu possibile stabilire la causa del decesso. Il mio esame preliminare non aveva rivelato ferite da arma da fuoco, né ferite recenti, né lesività contusive o da taglio.
«Claudia De la Alda?»
Galiano era tornato.
«Corrisponde al profilo.»
«Che cosa le è successo?»
«Niente colpi, né ferite. Niente pallottole e niente lacci. Le sue supposizioni, tenente, valgono quanto le mie.»
«Lo ioide?»
Galiano si riferiva all'osso a ferro di cavallo che fluttua nei tessuti molli nella parte anteriore del collo. Nelle vittime più adulte, lo ioide può fratturarsi durante uno strangolamento.
«Intatto. Ma in una persona così giovane non significa nulla.»
Così giovane. Come la ragazza nella fossa biologica. Negli occhi di Galiano vidi una luce, e capii che avevamo avuto lo stesso pensiero.
Cercai di alzarmi. Ma le ginocchia si ribellarono e persi l'equilibrio. Galiano mi afferrò prima che gli cadessi addosso. Per una frazione di secondo nessuno dei due si mosse. La mia guancia, contro il petto del tenente, era calda.
Sorpresa, ripresi l'equilibrio, indietreggiai di un passo e mi concentrai sui guanti di gomma. Sentii su di me gli intensi occhi castani di Galiano, ma continuai a togliermi i guanti senza guardarlo.
«Hernández ha scoperto qualcosa?» domandai.
«Nessuno ha visto né sentito niente.»
«Si è procurato la documentazione odontoiatrica della ragazza?»
«Sì.»
«Per l'identificazione dovrebbe bastare il semplice confronto tra i denti ritrovati e la documentazione.»
Fissai Galiano per un istante, ma subito riportai lo sguardo sui guanti. Quell'abbraccio era durato un istante di troppo, o lo avevo solo immaginato?
«Qui ha finito?» mi domandò il tenente.
«Devo solo scavare e passare al setaccio la terra.»
Galiano guardò l'orologio. E io, con prontezza pavloviana, guardai il mio. Le cinque e dieci.
«Pensa di iniziare adesso?» domandò.
«Veramente, pensavo di finire adesso. Se in giro c'è qualche bastardo malato a caccia di ragazze, mentre noi stiamo qui a parlare potrebbe aver scelto la sua prossima vittima.»
«Già.»
«Oltretutto, più aumentano le persone, più il sito sarà compromesso.»
Non fu necessario pronunciare il nome di Díaz.
«E poi ha visto che folla c'è lassù. Questa storia esploderà come un acquazzone tropicale.»
Infilai i guanti nel sacco mortuario.
«Gli addetti al trasporto possono prelevare il corpo» dissi «ma si accerti che lo assicurino con una cinghia.»
«Sissignora.»
Per caso il bastardo stava sorridendo? O era di nuovo la mia immaginazione?
Insieme a Colom e Xicay trascorsi l'ora successiva scavando e setacciando i quindici centimetri di terra intorno alla porzione di canale dove avevamo trovato il corpo. Nel setaccio rimasero i denti, tre falangi, diverse unghie dei piedi e delle mani e un orecchino d'oro.
Quando Galiano tornò, gli mostrai l'orecchino a borchia. «Che cos'è?»
«È quello che noi chiamiamo indizio.» Mi sembrò di sentire Fredi Minos.
«Appartiene a Claudia De la Alda?»
«Questa è una domanda da fare alla famiglia.»
«Non portava gioielli sulle fotografie che abbiamo.»
«È vero.»
Galiano si infilò la bustina con l'orecchino in tasca.
Scese la sera, e noi risalimmo il dirupo e tornammo sulla strada. I furgoni della stampa erano andati via, non senza aver scattato le loro irrinunciabili foto del sacco mortuario. Qualche cronista resisteva, sperando in una qualche dichiarazione.
«Quanti, Galiano?»
«Chi è la vittima?»
«È una donna? È stata stuprata?»
«No comment.»
Mentre salivo sulla volante di Galiano, una fotografa mi immortalò con una delle tre macchine che aveva al collo.
Chiusi la portiera e abbassai la sicura. Poi mi abbandonai sul sedile e chiusi gli occhi. Galiano salì e avviò il motore. Udii qualcuno battere sul finestrino, ma lo ignorai.
Il tenente ingranò la retromarcia, appoggiò il braccio sullo schienale del mio sedile, si voltò indietro e fece manovra. Quando ritirò il braccio, mi sfiorò il collo con le dita.
La mia pelle ebbe un fremito.
Riaprii gli occhi di scatto.
Gesù, Brennan. Una ragazza è morta. Una famiglia presto sarà distrutta dal dolore. Tu stai lavorando a un caso. Questo non è un appuntamento galante.
Lanciai un'occhiata furtiva a Galiano. I fari delle altre automobili gli scivolavano sulla faccia, deformandogli i lineamenti.
Pensai alle viole appuntate sulla fascetta elastica degli asparagi. Chissà se Galiano mi aveva sentita trasalire, quando gli avevo premuto la guancia contro il petto. Era vero che quell'abbraccio si era protratto oltre il necessario?
Pensai alla composizione formato Maggiolino nella mia stanza d'albergo.
Gesù.
«Maledetti squali.» La voce di Galiano mi fece sussultare. «No, sono peggio degli squali. Sono iene che girano intorno a una carcassa.»
Aprì il finestrino. Puzzavo di fango e di carne putrefatta, e mi chiesi se fossi io la causa di quel gesto.
«È riuscita a fare tutto il necessario?» mi domandò.
«Ho eseguito un esame preliminare, ma devo confermarlo.»
«La ragazza sta andando all'obitorio.»
«Questo significa che non potrò più rivedere il cadavere?»
«Non se io ho qualcosa da dire.»
«Ci sono quattro molari con otturazioni utili per il confronto con la documentazione odontoiatrica. In più, c'è una vecchia frattura sul braccio, che potrà servire come ulteriore conferma.»
Per qualche minuto scese il silenzio.
«Come mai per questo cadavere Díaz non è arrivato?» domandai.
«Forse il lunedì è il giorno in cui gioca a bocce.»
Venti minuti dopo Galiano accostò davanti al mio albergo. Aprii la portiera prima che l'auto fosse completamente ferma. Mentre prendevo il mio zaino, il tenente mi strinse il braccio con la mano.
Oh, santo cielo.
«Ha fatto un ottimo lavoro, giù al dirupo.»
«Grazie.»
«Vedrà che se in giro c'è un maniaco psicopatico, lo inchioderemo.»
«Sì.»
Allentò la stretta, e mi scostò una ciocca dalla guancia con la punta delle dita.
Di nuovo quel fremito.
«Cerchi di dormire. Ne ha bisogno.»
«Già.»
Mi allontanai dall'auto.
Dominique Specter, però, aveva altri piani.
Mi stava aspettando nella hall, seminascosta da una delle piante di plastica. Quando entrai, si alzò, e una copia di «Vogue» scivolò a terra.
«Dottoressa Brennan?»
La moglie dell'ambasciatore indossava un completo pantalone Jones of New York in seta grigio perla, e portava un girocollo di perle nere. In quell'albergo sembrava fuori posto come un travestito a un'assemblea della Chiesa battista.
Ero troppo sorpresa per rispondere.
«Mi rendo conto che la mia visita è un po' inopportuna.»
Poi si accorse dello stato in cui ero, dei capelli, delle unghie e dei vestiti sporchi di fango. Forse anche del mio odore.
«Mi dica, sono proprio così terribilmente inopportuna?» E sfoderò il suo sorriso diplomatico.
«No» risposi stancamente. «Il tenente Galiano mi ha appena accompagnata. Aspetti che lo chiamo e gli dico di venire qui.»
Cercai il cellulare.
«No!»
La guardai. Gli occhi verdi brillante erano spalancati per la preoccupazione.
«Preferirei... ecco, preferirei parlare con lei.»
«Ma il tenente Galia...»
«Da sola. Comprenez-vous?»
No. Non capivo. Ma accettai.
12
Mentre io salivo nella mia stanza, la signora Specter tornò al suo «Vogue». Non avevo capito se la sua pazienza era frutto della cortesia o piuttosto del disgusto per le mie condizioni igieniche. In ogni caso non m'importava. Ero sporca, mi sentivo prudere ovunque, e dopo il recupero di un cadavere durato sei ore, ero anche depressa. Avevo bisogno di una doccia.
Approfittai di tutto quello che offriva la mia trousse di prodotti da bagno. Shampoo e balsamo alla camomilla, bagnoschiuma agli agrumi, crema per il corpo alla mandorla e miele, mousse al cipresso e tè verde.
Mentre mi vestivo, guardai con desiderio il letto. Dormire era l'unica cosa che volevo fare in quel momento. Di certo, non volevo intrecciare un'intensa e lunga conversazione con una madre ferita e sofferente. Ma mi lasciai intrappolare da tutti gli «e se...» che mi ronzavano in testa. E se la signora Specter aveva taciuto qualcosa e ora voleva rivelarla? E se stava per raccontarmi un particolare che avrebbe sbloccato uno degli altri casi? O magari tutti?
E se sapeva dove si trovava Chantale?
Torna con i piedi per terra, Brennan.
Raggiunsi la signora Specter profumata come un giardino a primavera. Lei propose di andare in un parco a due isolati dall'albergo. Accettai.
Parque de las Flores era un piccolo quadrato verde circondato da cespugli di rose e attraversato da due sentieri che lo tagliavano diagonalmente da un angolo all'altro. I quattro triangoli creati dalla X di ghiaia erano occupati da alberi e da panchine di legno.
«È una serata splendida» disse la signora, spostando un giornale e sedendosi su una panchina.
Sono le undici, pensai io.
«Mi ricorda una sera d'estate a Charlevoix. Sapeva che Charlevoix è la mia città?»
«No, signora. Non lo sapevo.»
«È mai stata in quella zona del Québec?»
«So che è una regione ricca di bellezze naturali.»
«Mio marito e io abbiamo un piccolo appartamento a Montréal, ma io cerco di andare a Charlevoix tutte le volte che posso.»
Una coppia ci passò davanti. La donna spingeva un passeggino, con le ruote che scricchiolavano leggermente sulla ghiaia. L'uomo le camminava a fianco, tenendole un braccio sulla spalla.
Pensai a Galiano. La guancia sinistra bruciò nel punto sfiorato dalle sue dita. Pensai a Ryan. Le guance bruciarono entrambe.
«E il compleanno di Chantale.» Le parole della signora Specter mi riportarono al presente. «Oggi compie diciassette anni.»
Tempo presente?
«Ormai è scomparsa da quattro mesi.»
Era troppo buio per vedere la sua espressione.
«Chantale non mi avrebbe mai lasciata soffrire così. Se fosse da qualche parte, in un posto dove può comunicare, lo avrebbe fatto di certo.»
Giocherellò con la targhetta della sua borsa. La lasciai continuare.
«L'ultimo anno è stato terribilmente difficile. Come aveva detto il tenente Galiano? Una cattiva strada. Oui, aveva detto che Chantale si era messa su una cattiva strada. Ma anche quando Chantale andava en fugue... come dite voi?»
«Quando scappava.»
«Sì, ecco, anche quando scappava, Chantale mi faceva sempre sapere che stava bene. Magari non voleva tornare a casa, si rifiutava di dirmi dov'era, ma chiamava sempre.»
La moglie dell'ambasciatore si interruppe, osservò una donna anziana frugare in un cestino dei rifiuti in un altro triangolo.
«So che le è successo qualcosa di terribile.»
Un'auto di passaggio le illuminò il viso, poi tornò di nuovo il buio. Dopo qualche secondo riprese a parlare.
«Ho paura che la ragazza della fossa biologica sia Chantale.»
Feci per dire qualcosa, ma fui subito interrotta.
«Le cose non sono sempre come sembrano, dottoressa Brennan.»
«Che cosa sta cercando di dirmi?»
«Mio marito è un uomo meraviglioso. Ero molto giovane quando ci siamo sposati.» Stava dando voce ai suoi pensieri, così come le venivano alla mente. «Ha una decina di anni più di me. Nei primi tempi, a volte capitava che...»
Di nuovo si interruppe, timorosa di parlare, ma bisognosa di liberarsi il cuore.
«Non ero pronta per mettere su famiglia. E ho avuto una relazione.»
«Quando?» Cominciavo a intuire il senso di quell'incontro.
«Nel 1983. Mio marito era stato assegnato a Ciudad de México, ma viaggiava incessantemente. Io ero quasi sempre sola, e la sera cominciai a uscire. Non andavo in cerca di avventure, né di qualcosa in particolare, volevo solo occupare il tempo.» Sospirò. «Incontrai un uomo. Iniziammo a vederci. Alla fine, presi anche in considerazione la possibilità di lasciare André per sposarlo.»
Un'altra pausa. Per capire che cosa dire. E cosa tacere.
«Prima che potessi decidere, la moglie di Miguel scoprì tutto, e lui mi lasciò.»
«E lei era incinta» indovinai.
«Chantale nacque la primavera successiva.»
«Il suo amante era messicano?»
«Guatemalteco.»
Rividi il viso di Chantale sulle fotografie. Aveva gli occhi scuri e profondi, gli zigomi alti, la mascella larga. I capelli biondi mi avevano ingannata. Avevo lasciato che un'idea preconcetta sviasse il mio intuito.
Gesù. Cos'altro avrei scoperto?
«C'è dell'altro?»
«Non è abbastanza?»
La signora Specter inclinò la testa di lato, come se il collo non potesse più sopportarne il peso.
«Molti uomini e molte donne tradiscono i loro compagni.» E io lo sapevo bene.
«Vivo con questo segreto da quasi vent'anni, ed è stato un vero inferno.» La sua voce tradiva rabbia e dolore allo stesso tempo. «Non sono mai riuscita a confessare chi era mia figlia, dottoressa Brennan. Né a lei, né a mio marito, né a nessun altro. L'inganno ha segnato ogni aspetto della mia vita. Ha avvelenato pensieri e sogni che non ho mai nemmeno osato avere.»
Pensai che fosse una strana cosa da dire.
«Se Chantale è morta, la colpa è solo mia.»
«La sua è una reazione naturale, signora Specter. Lei adesso si sente sola, e in colpa, ma...»
«A gennaio ho raccontato a Chantale la verità.»
«Le ha detto chi era il suo padre biologico?»
Intravidi il suo cenno affermativo.
«La sera in cui è scomparsa?»
«Non voleva credermi. Mi ha detto cose irripetibili. Abbiamo avuto un tremendo litigio, e poi è fuggita via. Quella è l'ultima volta che l'abbiamo vista.»
Per un paio di minuti nessuna delle due parlò.
«L'ambasciatore lo sa?»
«No.»
Pensai alla relazione che avrei scritto sulle ossa recuperate nella fossa biologica.
«Se la ragazza della Pensión Paraíso fosse sua figlia, quello che lei mi ha raccontato si verrà a sapere.»
«Lo so.»
Raddrizzò la testa, e si portò una mano al petto. Nel buio, le dita erano pallide, lo smalto delle unghie nero.
«Ho saputo anche del cadavere che avete ritrovato oggi, vicino a Kaminaljuyu, anche se purtroppo non ricordo il nome della povera ragazza.»
Gli informatori degli Specter lavoravano bene.
«Quella vittima non è ancora stata identificata» dissi.
«Non è Chantale. Perciò il campo si restringe a tre ragazze.»
«Come può dirlo?»
«Mia figlia ha denti perfetti.»
Gli informatori degli Specter lavoravano davvero molto bene.
«Chantale andava dal dentista?»
«Andava solo per la pulizia e per le visite di controllo. La polizia ha la documentazione. Purtroppo, mio marito è contrario alle radiografìe non strettamente necessarie. Quindi nel fascicolo non ce ne sono.»
«Lo scheletro della Pensión Paraíso potrebbe non appartenere a nessuna delle ragazze scomparse che stiamo cercando» dissi.
«Oppure potrebbe essere mia figlia.»
«Voi avete un gatto, signora Specter?»
Anche se non la vidi, percepii che si era irrigidita.
«Che strana domanda.»
Quindi gli informatori degli Specter non erano infallibili: non avevano riferito le conclusioni cui era giunto Minos.
«Nei jeans recuperati nella fossa biologica abbiamo trovato peli di gatto.» Non parlai del campione che avevo prelevato dalla poltrona di casa sua. «Lei ha detto al tenente Galiano che non avete animali.»
«Abbiamo perduto il nostro gatto lo scorso Natale.»
«In che senso, perduto?»
«Guimauve è annegato.» Le unghie nere danzavano intorno alle perle nere. «Chantale ha trovato il suo corpicino che galleggiava nella piscina. Era distrutta.»
Si interruppe per qualche secondo, poi: «Si è fatto tardi. Dev'essere molto stanca, dottoressa».
Dominique Specter si alzò, spianò qualche piega invisibile sul completo di seta grigia e si avviò lungo il sentiero. Mi alzai anch'io.
Quando giungemmo al marciapiede, riprese a parlare. Sotto il pallido riverbero ocra di un lampione, notai che il suo viso perfettamente decorato aveva ripreso l'espressione da moglie del diplomatico.
«Mio marito ha fatto qualche telefonata. Il procuratore distrettuale si metterà in contatto con lei per prendere accordi per le analisi sui resti della Pensión Paraíso.»
«Mi daranno l'autorizzazione per esaminare le ossa?» Ero stupefatta.
«Sì.»
Iniziai a ringraziarla.
«No, dottoressa Brennan. Sono io che la devo ringraziare... Mi scusi un momento.»
Prese il cellulare dalla borsa e disse qualche parola.
Proseguimmo in silenzio. La musica filtrava dalle porte aperte dei bar e dei locali che incontravamo. Incrociammo una bicicletta. Un ubriaco. Una nonnina con un carrello per la spesa. Chissà se era la stessa vecchietta che avevamo visto al parco.
Quando fummo davanti all'hotel, una Mercedes nera accostò al marciapiede. Un uomo in abito scuro scese e aprì la portiera posteriore.
«Pregherò per lei.»
La moglie dell'ambasciatore scomparve dietro il vetro fumé.
Alle dieci del mattino dopo, lo scheletro di Kaminaljuyu aspettava sull'acciaio del tavolo anatomico alla Morgue del Organismo Judicial, nella Zona Tre. Intorno al tavolo, io, il tenente Gallano, la dottoressa Angelina Fereira e un tecnico di autopsia.
Su indicazioni di Angelina Fereira, i resti erano stati fotografati e radiografati prima dell'arrivo in obitorio, mentre i vestiti giacevano sul piano di lavoro alle mie spalle. I capelli e il sacco mortuario erano stati controllati per verificare la presenza di eventuali indizi.
Piastrelle anonime, tavolo in acciaio inossidabile, strumenti scintillanti, luci al neon, investigatori in mascherina e guanti. Una scena anche troppo familiare, come lo era la procedura che stavo per iniziare. Sondaggio, misurazione, pesatura, lacerazione dei tessuti, segatura delle ossa. Quell'impietosa esposizione non era che l'ultima umiliazione subita da quella ragazza, un'aggressione post mortem che superava tutto ciò che poteva aver subito durante la vita.
Una parte di me avrebbe voluto coprirla, e allontanarla da quegli asettici estranei per portarla alla santità di quanti le avevano voluto bene. E consentire così alla famiglia di mettere ciò che rimaneva di lei in un luogo di pace.
Ma la mia parte razionale vedeva le cose diversamente. Quella vittima esigeva un nome. Solo in seguito i familiari avrebbero potuto seppellirla. Le sue ossa meritavano di poter parlare, di gridare silenziosamente i fatti delle sue ultime ore di vita. Solo così la polizia poteva sperare di ricostruire ciò che l'aveva colpita.
Perciò ci eravamo riuniti in quella stanza con i nostri moduli, i nostri bisturi, le bilance, i calibri, i taccuini, i vasetti di vetro, le macchine fotografiche.
Angelina Fereira confermò le mie stime su età, sesso e razza. Come me, non trovò fratture recenti, né altri indicatori di traumi o aggressioni violente. Insieme, misurammo e calcolammo la statura. Insieme asportammo del tessuto osseo per un eventuale test del DNA con cui determinare il profilo della vittima. Ma non sarebbe stato necessario.
Un'ora e mezza dopo l'inizio dell'autopsia, Hernández arrivò con la documentazione dentistica di Claudia De la Alda. Fu sufficiente un'occhiata per sapere chi c'era su quel tavolo anatomico.
Dopo che Galiano e il collega erano usciti per portare la notizia alla famiglia di Claudia, la porta si aprì di nuovo per lasciar entrare un uomo che avevo già visto alla Pensión Paraíso. Era il dottor Lucas. Il suo viso era grigio sotto la luce violenta. Salutò Angelina Fereira, poi le chiese di lasciare la stanza.
Sopra la mascherina, gli occhi della donna si accesero di sorpresa. O di rabbia. O di risentimento.
«Certo, dottore.»
Si tolse i guanti, li gettò in un bidoncino per i rifiuti biologici, uscì. Lucas attese finché la porta si richiuse.
«Le sono state concesse due ore per lo scheletro della Pensión Paraíso.»
«Ma non sono sufficienti» obiettai.
«Dovranno bastare. Quattro giorni fa diciassette persone sono morte a bordo di un autobus. E dopo ne sono morte altre tre. Il mio personale è sommerso di lavoro, e le strutture a disposizione sono limitate.»
Pur provando una grande compassione per le vittime di quell'incidente e per le loro famiglie, non potevo non provarne altrettanta per una ragazza incinta il cui corpo era praticamente stato scaricato in un cesso come un rifiuto.
«Non ho bisogno di una sala autopsie. Posso lavorare ovunque.»
«No. Non può.»
«Da chi arriva l'ordine che devo limitarmi a un esame di due ore?»
«Dall'ufficio del procuratore distrettuale. Il señor Díaz resta dell'idea che un estraneo non è necessario.»
«Estraneo a cosa?» domandai in un impulso di rabbia.
«Che cosa sta insinuando?»
Inspirai a fondo. Espirai. Calma, Brennan.
«Non sto insinuando niente. Sto solo cercando di collaborare. E non capisco perché il procuratore distrettuale si dia tanto da fare per ostacolarmi.»
«Mi spiace, dottoressa Brennan. Non è stata una mia decisione.» Mi porse un foglio di carta. «Le ossa saranno portate in questa sala quando lei sarà pronta. Chiami questo numero.»
«Ma questo non ha senso. Mi si concede di esaminare i resti di Kaminaljuyu, ma allo stesso tempo mi si impedisce di lavorare su quelli recuperati alla Pensión Paraíso. Che cosa teme che possa trovare, il señor Díaz?»
«È una questione di protocollo, dottoressa Brennan. Un'altra cosa. Non può asportare, né fotografare niente.»
«Peccato. Rimarrà un buco nella mia collezione di souvenir» replicai con sarcasmo. Come Díaz, anche Lucas tirava fuori il peggio di me.
«Buenos días.»
Insensibile alle mie obiezioni, Lucas lasciò la sala.
Dopo qualche secondo, Angelina Fereira rientrò. Puzzava di fumo di sigaretta e aveva un pezzettino di carta sul labbro inferiore.
«Un colloquio con Hector Lucas. Dev'essere il suo giorno fortunato.» Durante l'autopsia avevamo parlato spagnolo, ma adesso la dottoressa era passata all'inglese. Aveva un accento texano.
«Già.»
La dottoressa si sedette sul piano di lavoro e incrociò le caviglie. Aveva i capelli grigi tagliati cortissimi, gli occhi castano scuro e un corpo che ricordava un frigorifero.
«Può sembrare un cane da punta, ma è davvero un ottimo medico.»
Non replicai.
«Avete litigato?»
Le raccontai della fossa biologica. Lei mi ascoltò con un'espressione seria. Quando ebbi finito, Angelina guardò i resti di Claudia De la Alda.
«Galiano sospetta che i casi siano collegati?»
«Sì.»
«Speriamo che non lo siano.»
«Speriamo.»
Si tolse la briciola di carta dal labbro con un'unghia, la ispezionò e la gettò via.
«Secondo lei lo scheletro della Pensión Paraíso potrebbe essere la figlia dell'ambasciatore?»
«È possibile.»
«Non potrebbe essere questa la ragione per cui Díaz sta creando problemi? Per evitare un imbarazzo diplomatico?»
«Non ha senso. È il signor Specter che ha fatto in modo che mi fosse concessa la possibilità di esaminare le ossa.»
«Per due ore.» La voce della dottoressa era intrisa di sarcasmo.
Ma aveva ragione. Se l'ambasciatore aveva abbastanza potere per scavalcare Díaz, perché non aveva ottenuto più tempo?
«Se ci fosse anche una remota possibilità che si tratti di sua figlia, per quale motivo Specter non dovrebbe volerlo sapere?» Angelina Fereira formulò la stessa domanda che avevo in mente io.
«Potrebbero esserci altre ragioni per le quali Díaz non vuole che mi occupi delle ossa?»
«Per esempio?» domandò la dottoressa.
Non me ne venne in mente nessuna.
«Lucas sostiene che è a causa dell'incidente dell'autobus» dissi.
«In effetti la situazione è grigia. Abbiamo molto lavoro.» Angelina Fereira scese dal piano di lavoro. «Comunque, se può servire a tranquillizzarla, sappia che non dipende da lei. Lucas e Díaz detestano entrambi le interferenze.»
Feci per obiettare, ma mi fermò con un gesto.
«So bene che lei non sta interferendo, ma forse loro la vedono comunque così.» Guardò l'orologio. «Allora, mi dica quando pensava di esaminare le ossa.»
«Oggi pomeriggio.»
«Posso fare qualcosa?»
«Ho un'idea, ma avrei bisogno del suo aiuto per metterla in pratica.»
«Spari.»
Le illustrai il mio piano. La dottoressa osservò lo scheletro di Claudia De la Alda, poi tornò su di me.
«Posso farlo.»
Tre ore dopo, Angelina Fereira e io concludemmo l'autopsia di Claudia De la Alda, mangiammo un rapido spuntino, poi lei passò alle vittime dell'incidente, mentre i resti di Claudia venivano portati nella sala a bassa temperatura, per far posto ai resti del corpo della Pensión Paraíso, che occuparono lo stesso tavolo anatomico. Il tecnico di autopsia sedette su uno sgabello in un angolo della stanza, non più aiutante ma spettatore.
Le ossa erano come le ricordavo, ma ripulite dalla melma e dai detriti. Ispezionai coste e bacino, registrai lo stato di fusione di ogni cresta, epifisi e sutura cranica, poi passai all'esame dei denti.
Le stime del sesso e dell'età rimasero invariate; quei resti appartenevano a una femmina tardo adolescente.
Anche la sensazione che si trattasse di una persona di razza mongoloide era corretta. Ma per avere la conferma dell'esame visivo, presi le misure del cranio e delle ossa della faccia per analizzarle al computer.
Cercai le tracce di un trauma perimortale ma non le trovai. Né individuai qualche particolarità dello scheletro che potesse aiutare l'identificazione. I denti non presentavano anomalie né restauri.
Avevo appena finito di registrare la lunghezza delle ossa lunghe per calcolare la statura, quando un telefono squillò nell'anticamera. Rispose il tecnico, e venne a riferirmi che il mio tempo era scaduto.
Mi allontanai dal tavolo anatomico, abbassai la mascherina e mi sfilai i guanti. Nessun problema, tanto avevo ciò che mi serviva.
Fuori, il sole tramontava verso gli enormi batuffoli delle nuvole ammassate all'orizzonte. Dalla strada arrivava il fumo di un bidone per l'immondizia in fiamme. Una leggera brezza spostava cartacce e fogli di giornali sparsi sul marciapiede.
Inspirai a fondo e guardai il cimitero poco lontano. Le ombre si allungavano sulle tombe e sui vasi e barattoli di marmellata che contenevano i fiori di plastica. Una vecchia sedeva su una cassa di legno, la testa coperta, il corpo avvizzito avvolto negli abiti neri. Dalle dita nodose pendeva il rosario.
Avrei dovuto sentirmi bene. In fondo, avevo riportato una vittoria su Díaz, anche se incompleta. E le mie valutazioni iniziali si erano dimostrate corrette. Invece ero triste.
E spaventata.
Erano trascorsi tre mesi da quando Claudia De la Alda era stata vista l'ultima volta alla scomparsa di Patricia Eduardo. Poco più di due mesi tra la scomparsa di Patricia Eduardo e quella di Lucy Gerardi. Chantale Specter era svanita dieci giorni dopo Lucy Gerardi.
Se il responsabile di tutto quello era un maniaco, gli intervalli si stavano accorciando.
E la sua sete di sangue aumentava.
Presi il cellulare e digitai il numero di Galiano. Prima che potessi inviare la chiamata, l'oggetto mi trillò tra le mani.
Era Mateo Reyes.
Molly Carraway si era svegliata dal coma.
13
All'alba del giorno dopo, Mateo e io eravamo già sulla statale per Sololá. La strada era un susseguirsi di salite e discese, con banchi di nebbia negli avvallamenti, e cielo terso e striato di rosa nei tratti più elevati. L'aria era fresca, l'orizzonte velato di foschia mattutina. Mateo spingeva la jeep al massimo, il viso concentrato, le mani strette sul volante.
Io sedevo accanto a Mateo, il gomito fuori del finestrino come un camionista di Tucson. Il vento mi scompigliava i capelli e io continuavo distrattamente a rimetterli a posto, senza smettere di pensare a Molly e Carlos.
Avevo incontrato Carlos solo un paio di volte, mentre conoscevo Molly da una decina d'anni. Pur avendo più o meno la mia età, era giunta all'antropologia piuttosto tardi. Insegnante di biologia alla scuola superiore, Molly si sentiva frustrata dai turni alla caffetteria della scuola e dai servizi di sorveglianza nei bagni. Così, all'età di trentun anni aveva fatto marcia indietro. Era tornata all'università, aveva finito il dottorato in bio-archeologia e aveva accettato un posto al dipartimento di Antropologia della University of Minnesota.
Come me, Molly era stata coinvolta nella medicina legale da coroner e poliziotti incuranti della distinzione tra antropologia fìsica e forense. Come me, dedicava parte del suo tempo alle indagini sulle violazioni dei diritti umani.
Diversamente da me, Molly non aveva mai abbandonato gli studi sui morti antichi. E anche se spesso collaborava con il coroner, l'archeologia era rimasta il suo primo obiettivo. Ma doveva ancora ottenere l'abilitazione dell'American Board of Forensic Anthropology.
Ce la farai, Molly. Vedrai che ce la farai.
Mateo e io percorremmo chilometro dopo chilometro in silenzio. Il traffico era diminuito all'uscita da Ciudad de Guatemala, e si stava intensificando a mano a mano che ci avvicinavamo a Sololá. Avevamo attraversato valli verdeggianti, pascoli giallastri punteggiati da mucche marroni che brucavano riunite a gruppi, villaggi affollati di ambulanti che esibivano le loro merci.
Dopo un'ora e mezza Mateo prese la parola.
«Il dottore ha detto che era agitata.»
«Se aprissi gli occhi davanti a un buco di due settimane nella tua vita, anche tu saresti agitato.»
Superammo una curva, e incrociammo un paio di veicoli in direzione opposta che ci investirono con una ventata d'aria.
«Forse è così.»
«Forse?» lo guardai.
«Non so. La voce del medico aveva qualcosa di strano.»
Si avvicinò al paraurti di un camion, sterzò bruscamente e lo superò.
«Che cosa?»
Mateo scrollò le spalle. «Più che altro era il tono.»
«Che altro ti ha detto?»
«Non molto.»
«Ha riportato danni permanenti?»
«Non lo sa. O non voleva dirlo.»
«È arrivato qualcuno dal Minnesota?»
«Suo padre. È sposata?»
«Divorziata. I suoi figli vanno alle superiori.»
Mateo proseguì in silenzio, con il vento che gli sollevava la camicia di jeans e un mazzo di riflessi gialli che giocavano sulle lenti dei suoi occhiali scuri.
L'ospedale di Sololá era un labirinto a sei piani di mattoni rossi e vetri sporchi. Mateo parcheggiò in una piazzola e percorremmo un vialetto alberato fino all'ingresso principale. Nel cortile antistante l'ospedale, un Gesù di cemento dava il suo benvenuto a braccia aperte.
L'atrio era affollato di persone. C'era chi passeggiava, chi pregava, chi beveva una bibita, chi si agitava sulle panche di legno. Alcuni portavano abiti da casa, altri erano in jeans; qualcuno indossava un formale completo. I più, tuttavia, erano vestiti con gli abiti tradizionali maya della zona di Sololá. Le donne sfoggiavano tessuti rossi a righe, e tenevano i bambini sulla pancia o sulla schiena avvolti in una fascia di tela. Gli uomini portavano aprones di lana, cappelli da gaucho, camicie e pantaloni fittamente ricamati. Di tanto in tanto quel caleidoscopio di forme e colori veniva attraversato da un'infermiera con il suo camice immacolato.
Mi guardai intorno, riconoscendo l'atmosfera ma non l'ambiente. Le indicazioni portavano alla caffetteria, allo spaccio, in amministrazione e verso una decina di reparti interni: chirurgia, urologia, pediatria.
Ignorando i cartelli che invitavano a passare per la reception, Mateo mi guidò direttamente a un gruppo di ascensori. Salimmo al quinto piano e imboccammo il corridoio a sinistra. Le suole scricchiolavano sulle mattonelle del pavimento. Mentre percorrevamo il corridoio, mi vidi riflessa nel finestrino rettangolare di una decina di porte.
«¡Alto!» qualcuno gridò dietro di noi.
Ci voltammo. Una bellicosa infermiera ci stava raggiungendo, la cartellina dell'ospedale premuta contro il petto candido. I capelli erano raccolti così strettamente che rischiava lo scalpo.
Il cerbero del quinto piano allungò braccio e cartellina e ci fu accanto.
Mateo e io le rivolgemmo un sorriso accattivante.
Il cerbero ci domandò la ragione della nostra presenza.
Mateo le spiegò.
La donna prese la cartellina, e ci squadrò dall'alto in basso.
«¿Familia?»
Mateo mi indicò. «Americana.»
Continuò a squadrarci.
«Número trenta y cinco.»
«Gracias.»
«Veinte minutos. Nada más.» Venti minuti. Niente di più.
«Gracias.»
Molly sembrava il ritratto della morte tradita. La camicia di cotone sbiadita dopo un milione di lavaggi le stava addosso come un sudario. Una sonda le usciva dal naso, un'altra più piccola dal braccio, che aveva meno carne degli scheletri dell'obitorio.
Mateo inspirò a fondo. «Jesus.»
Gli misi una mano sulla spalla.
Gli occhi di Molly erano due caverne color lavanda. Li aprì, ci riconobbe e si sforzò di sollevarsi sul cuscino. Corsi accanto al letto.
«¿Qué hay de nuevo?» Quasi incomprensibile.
«Sei tu che ci devi raccontare qualche novità» replicai.
«Mi sono fatta una fantastica siesta.»
«Sapevo che ti stavamo facendo lavorare troppo.» Le parole di Mateo erano lievi, ma il suo tono non lo era affatto.
Molly sorrise debolmente, e indicò un bicchiere d'acqua sul comodino.
Spinsi il piccolo tavolo girevole verso di lei e piegai la cannuccia. Molly ci chiuse le labbra disidratate intorno, bevve, e riappoggiò la testa sul cuscino.
«Conoscete mio padre?» Una mano si sollevò e ricadde sulla coperta di lana grigia.
Mateo e io ci voltammo.
Un vecchio occupava una sedia in un angolo della stanza. Aveva i capelli bianchi e rughe profonde gli segnavano le guance, il mento e la fronte. Il bianco degli occhi era ingiallito dagli anni, ma l'iride era ancora azzurra come un lago di montagna.
Mateo andò a stringergli la mano. «Mateo Reyes. Immagino che dalle vostre parti direste che sono il "boss" di Molly.»
«Jack Dayton.»
Stretta di mano.
«Molto piacere di conoscerla, signor Dayton» dissi dal fianco del letto.
L'uomo annuì.
«Peccato che le circostanze non siano delle migliori.»
«E perché?»
«Prego?»
«Che cosa è successo alla mia piccola?»
«Papà, fai il bravo.»
Posai una mano sulla spalla di Molly.
«La polizia sta indagando.»
«Sono passate due settimane.»
«Per queste cose ci vuole tempo» disse Mateo.
«Già.»
«La tengono informato?» domandai.
«Non c'è niente da informare.»
«Sono sicura che si stanno dando da fare.» Non ero certa di credere a quello che avevo detto, ma volevo rassicurarlo.
«Sono passate due settimane.» Lo sguardo del vecchio si posò sulle dita nodose che teneva intrecciate in grembo.
Vero, Jack Dayton. Verissimo.
Strinsi la mano di Molly nella mia.
«Come stai?»
«Tra un po' sarò di nuovo sana come un pesce.» Un altro debole sorriso. «Non ho mai capito questo modo di dire. Devono averlo inventato i pescatori.» Si voltò lentamente per guardare il padre. «Papà, tu che ne dici? L'hanno inventato i pescatori, vero?»
Il vecchio non mosse un muscolo.
«Ho quarantadue anni, eppure i miei genitori mi credono ancora una bambina.» Molly si voltò di nuovo verso di me. «Non erano d'accordo che venissi in Guatemala.»
Dal loro angolo, gli occhi azzurro ghiaccio ebbero un fremito.
«Guarda che cosa è successo.»
Molly mi sorrise con aria complice.
«Papà, avrebbero potuto rapinarmi anche a Mankato.»
«A casa nostra i delinquenti li prendiamo e li mettiamo dentro.»
«Sai benissimo che le cose non vanno sempre così.»
«Almeno a casa i poliziotti parlano una lingua che conosco.»
Dayton si alzò e si sistemò i calzoni.
«Torno tra un po'.»
Uscì lentamente dalla stanza, facendo scricchiolare le Air Jordan sulle piastrelle.
«Vi prego di scusare mio padre, a volte è un po' irascibile.»
«Ti vuole bene. E in più è spaventato e arrabbiato. È giusto che sia irascibile. I dottori che dicono?»
«Un po' di riabilitazione e torno sana come un pesce. Inutile annoiarvi con i particolari.»
«Sono così contenta. Eravamo tutti preoccupati da morire. Qualcuno è venuto qui quasi tutti i giorni.»
«Lo so. Come vanno le cose a Chupan Ya?»
«Stiamo andando a tutta velocità con gli esami degli scheletri» rispose Mateo. «Dovremmo riuscire a identificarli tutti nel giro di un paio di settimane.»
«È così tremendo come dicevano i testimoni oculari?»
Annuii. «Parecchie ferite da arma da fuoco e da machete. Quasi tutte donne e bambini.»
Molly non commentò.
Guardai Mateo. Lui annuì. Io deglutii.
«Carlos...»
«I poliziotti me lo hanno già detto.»
«Ti hanno interrogata?»
«Ieri.»
Molly sospirò.
«Non ho potuto dire granché. I miei ricordi sono frammentari. Come tanti fotogrammi. Fari nello specchietto retrovisore. Una macchina che ci butta fuori strada. Due uomini che camminano sulla collinetta. Urla. Spari. Una figura che fa il giro del furgone e viene dalla mia parte. Poi più nulla.»
«Non ricordi di avermi telefonato?»
Molly scosse la testa.
«Riconosceresti quegli uomini?»
«Era buio. E non li ho visti in faccia.»
«Ti ricordi qualcosa che hanno detto?»
«Non molto. Ricordo solo che Carlos diceva qualcosa come "mota... mota".»
Guardai Mateo.
«Tangente.»
Sollevò un braccio e si scostò i capelli dalla fronte. L'avambraccio era pallido come la pancia di un pesce.
«C'era un uomo che continuava a dire agli altri di fare in fretta.»
«Nient'altro?» domandai.
Avvertimmo provenire dal fondo del corridoio il rumore dell'ascensore.
Gli occhi di Molly si spostarono sulla porta, poi tornarono su di me. Quando riprese a parlare, la sua voce si era fatta più bassa.
«Lo spagnolo lo parlo e lo capisco poco, ma credo che uno degli aggressori abbia detto qualcosa su un certo ispettore. Credi che potrebbero essere poliziotti?»
Controllò di nuovo la porta. Ripensai a Galiano al Gucumatz.
«O soldati coinvolti nel massacro di Chupan Ya?»
In quel momento il cerbero entrò nella stanza e inchiodò Mateo con il suo sguardo autoritario.
«La paziente deve riposare.»
Mateo si portò una mano alla bocca e cominciò ironicamente a sussurrare.
«Missione abortita. Siamo stati scoperti.»
Il cerbero non sembrò apprezzare la battuta.
«Cinque minuti?» domandai con un sorriso.
L'infermiera guardò l'orologio.
«Cinque minuti. Poi torno a controllare.» La sua espressione diceva che era pronta a chiamare rinforzi.
Molly guardò il cerbero che si allontanava, e si sollevò sui gomiti.
«C'è ancora una cosa. Non ne ho parlato con la polizia. Non so nemmeno perché... semplicemente, non l'ho fatto.»
Guardò Mateo, poi di nuovo me.
«È...» deglutì «un nome.»
Aspettammo.
«Potrei giurare di aver sentito uno di quegli uomini dire Brennan.»
Mi sembrò di essere sbattuta contro un muro. In fondo alla stanza, Mateo imprecò.
«Sei sicura?» fissai Molly, sconcertata.
«Sì. No. Sì. Oh, Gesù, Tempe, credo di sì. Nella testa ho un tale casino.» Si lasciò ricadere sui cuscini. Riportò il braccio davanti alla fronte, e gli occhi le si riempirono di lacrime.
Le strinsi forte la mano.
«Non ti preoccupare, Molly.» Avevo la bocca secca, e di colpo la stanza mi sembrava più piccola.
«E se adesso danno la caccia a te?» Molly cominciava ad agitarsi. «E se adesso il loro prossimo bersaglio sei tu?»
Allungai la mano e le accarezzai la testa.
«Era buio. Eri spaventata. È accaduto tutto così in fretta. Probabilmente hai capito male.»
«Non potrei sopportare che facessero del male a qualcun altro. Tempe, promettimi che starai attenta!»
«Te lo prometto.»
Sorrisi, ma mi sentii invadere da una certa agitazione.
Dopo aver lasciato l'ospedale, Mateo e io pranzammo in un comedor all'interno dell'Hotel Paisaje, a un isolato dalla Plaza Central di Sololá. Discutemmo del racconto di Molly, e decidemmo che valeva la pena parlarne con la polizia.
Prima di rientrare a Ciudad de Guatemala, ci fermammo alla centrale di polizia. L'investigatore incaricato delle indagini non aveva nessuna novità. Raccolse la nostra deposizione, ma fu subito chiaro che non diede molto credito al fatto che Molly potesse ricordare di aver sentito pronunciare il mio nome. Non dicemmo che le sembrava di aver udito un riferimento a un «ispettore».
Durante il viaggio di ritorno nella capitale, dal cielo velato di grigio scese una cortina di nebbia. Nel fondovalle era così fitta che inghiottiva tutto ciò che esisteva fuori della jeep. Nei punti più elevati invece fluttuava ai lati della strada come spuma di mare.
Come già all'andata, non parlammo molto. Ma in testa mi vorticavano mille pensieri, ognuno concluso con un punto di domanda.
Chi aveva sparato a Carlos e a Molly? Perché? Sicuramente la polizia sbagliava nel ritenere che si trattasse di una semplice rapina. Un passaporto americano valeva oro, perché non avevano preso quello di Molly? La polizia non voleva seguire altre piste, a parte quella della rapina? Con quali motivazioni?
Molly aveva ragione? L'imboscata era mirata a colpire le indagini sulle vittime di Chupan Ya? Qualcuno si sentiva minacciato da ciò che avremmo potuto scoprire sul massacro?
Molly era abbastanza sicura che i suoi aggressori avessero pronunciato il nome Brennan. Mi veniva in mente solo una Brennan. Che interesse potevano avere per me? Sarei stata la loro prossima preda?
E chi era questo ispettore? I poliziotti erano semplicemente riluttanti a svolgere le indagini, oppure erano coinvolti direttamente nell'imboscata?
Controllavo lo specchietto retrovisore in continuazione.
Dopo un'ora di viaggio, appoggiai la testa al sedile e chiusi gli occhi. Ero in piedi dalle cinque. Il cervello lavorava lentamente, le palpebre pesanti.
La jeep mi cullava. Il vento mi accarezzava il viso.
Nonostante l'ansia che mi attanagliava, riuscii ad appisolarmi.
Ispettore. Che genere di ispettore?
Ispettore di polizia. Ispettore scolastico. Ispettore di produzione. Ispettore postale. Ispettore delle finanze. Ispettore dei lavori pubblici. Ispettore edile. Ispettore della rete fognaria.
Rete fognaria?
Fogne.
Fosse biologiche.
Pensión Paraíso.
Di colpo fui perfettamente sveglia.
«E se non fosse affatto un ispettore?»
Mateo mi lanciò un'occhiata ma non disse nulla.
«E se Molly avesse sentito più di quel nome? Per esempio: " Señor Inspector".»
Gli ci volle un nanosecondo per capire.
«Señor Specter.»
«Esattamente.» Fui lieta che Galiano avesse parlato a Mateo di Chantale Specter.
«Credi che stessero parlando di André Specter?»
«Magari l'aggressione aveva a che fare con la figlia dell'ambasciatore.»
«Perché allora avrebbero sparato a Molly e a Carlos?»
«Forse hanno confuso Molly con me. Siamo americane tutt'e due, portiamo la stessa taglia, abbiamo tutt'e due i capelli castani.»
Gesù. Quella storia cominciava a suonare anche troppo plausibile.
«Forse è questo il motivo per cui hanno pronunciato il mio nome.»
«Galiano ti ha coinvolto nel caso della Pensión Paraíso il giorno dopo l'aggressione a Carlos e a Molly.»
«Forse qualcuno era a conoscenza delle sue intenzioni e ha deciso di mettermi fuori gioco.»
«Ma chi poteva sapere una cosa simile?»
Mi venne in mente un'altra immagine di Galiano nella nicchia del ristorante Gucumatz. Mi sentii attraversare da un brivido freddo.
Passarono i minuti. Poi: «¡Maldición!».
Gli occhi di Mateo andarono fulminei allo specchietto retrovisore, io controllai quello laterale.
Nella nebbia dietro di noi pulsava una luce rossa. Udimmo una sirena, debole ma inconfondibile.
L'attenzione di Mateo si divise tra lo specchietto e il parabrezza. Io rimasi concentrata sulla volante alle nostre spalle.
La luce si fece più intensa, fino a diventare un turbine rosso. La sirena si fece assordante.
Mateo si spostò sulla corsia più interna.
La volante sembrava lanciata proprio contro il nostro paraurti. Una marea violacea inondò l'abitacolo della jeep. La sirena continuava a urlare. Mateo fissava imperterrito la strada. Io fissavo un puntino di ruggine sul cruscotto.
La volante si buttò sulla sinistra, ci sfrecciò accanto e scomparve nella nebbia.
Il cuore non smise di martellarmi nel petto finché non fummo dentro il cancello della sede della FAFG.
Galiano non c'era quando chiamai nel suo ufficio, ma rispose al mio messaggio nel giro di qualche minuto. Sarebbe stato impegnato per tutto il pomeriggio, ma era anche molto curioso di sapere di Molly, perciò mi propose di cenare insieme a Las Cien Puertas. Cibo squisito. Prezzi modici. Ottima musica latina. Ne parlava come un cliente affezionato.
Dedicai le tre ore successive a Chupan Ya, e rientrai al mio albergo alle sei e un quarto, profondamente scoraggiata dalla lacerante mancanza di senso di quelle morti. Sembrava che non sarei mai riuscita a tenermi lontana dalla morte.
Mentre mi cambiavo, mi costrinsi a pensare ad altro. Pensai a Galiano.
Dov'erano la moglie e il giovane Alejandro?
Una spruzzata di deodorante, una pennellata di fard.
Stavo tenendo Galiano lontano dalla sua famiglia?
Ridicolo. Era una cena rigorosamente professionale.
Davvero?
Era una questione di orario. Durante il giorno eravamo entrambi molto occupati.
Presi il mascara dal fondo della mia trousse per il trucco. Mentre svitavo l'applicatore, qualche frammento nero cadde nel lavandino.
Queste cene con Galiano erano giustificate?
Erano solo cene di lavoro.
Allora che bisogno c'era di avere le ciglia lunghe?
Infilai l'applicatore al suo posto e lo restituii inutilizzato alla mia trousse.
Galiano passò a prendermi alle sette.
Il ristorante si trovava in una tipica galleria della Zona Uno. La bellezza e la grandeur coloniale del luogo avevano da tempo abdicato, e il luogo era ormai caratterizzato solo dai graffiti sui muri e dall'intonaco che si sfaldava.
Ma sul cibo Galiano aveva ragione. Era ottimo.
Durante la cena, gli raccontai la mia visita a Sololá. Galiano condivise il mio sospetto che Molly fosse stata scambiata per me, e insistette affinché prendessi delle precauzioni al fine di proteggermi. Non c'era molto da discutere. Assicurai che avrei fatto attenzione. Mi propose di prendere una pistola, e si offrì di procurarmela. Rifiutai, con la scusa che avevo una pessima mira. Non gli dissi che le pistole mi terrorizzavano più del pensiero dei potenziali aggressori.
Galiano concordò sul fatto che l'aggressione a Molly e Carlos poteva benissimo essere mirata a ostacolare le indagini sulle vittime di Chupan Ya. Se così stavano le cose, forse non ci sarebbero stati altri agguati, dato che gli scavi erano stati completati. Tuttavia mi raccomandò di non andare in posti lontani o fuori mano. Mi raccomandò? Diciamo che quasi me lo vietò.
Galiano aveva dei dubbi sulla storia di André Specter.
«Però potrebbe spiegare perché non mi hanno dato l'autorizzazione per esaminare le ossa della Pensión Paraíso.»
«Perché?»
«Qualcuno sta facendo pressioni sul procuratore distrettuale.»
«E chi?»
«Non lo so.»
«Perché?»
«Non lo so.»
Il suo scetticismo mi irritò. O forse mi irritò la mia incapacità di trovare delle risposte.
In modo del tutto irrazionale, i miei pensieri tornarono a quando ero inciampata e Galiano mi aveva afferrata per non farmi cadere. Esisteva la memoria tattile? Era vero che la mia guancia aveva avuto un fremito quando aveva toccato il suo petto?
Certo che no.
Lo ascoltai in silenzio mentre mi raccontava delle indagini sull'omicidio di Claudia De la Alda. Galiano parlava un inglese privo di accento, ma con una cadenza latina. La sua voce mi piaceva. La sua espressione malandrina mi piaceva.
Mi piaceva il modo in cui mi guardava. Mi piaceva.
È una cena di lavoro, Brennan. E tu sei una scienziata, non un'adolescente.
Quando arrivò il conto, lo afferrai al volo, presi la mia American Express e la porsi al cameriere. Galiano non obiettò.
Tornati in auto, Galiano si voltò e appoggiò un braccio sul sedile.
«Che cosa c'è che la infastidisce?» Un'insegna al neon gli proiettava sul viso lame gialle e blu di luce intermittente.
«Niente.»
«Si comporta come una persona che ha appena saputo che qualcuno ha cercato di ucciderla.»
«Acuta osservazione.» Ma la diagnosi era sbagliata.
«Sono un ragazzo sensibile.»
«Veramente.»
«Ho letto Venere e Marte.»
«Ah.»
«E I ponti di Madison County.»
Allungò la mano e mi sfiorò l'angolo della bocca con un dito. Io voltai la testa.
«Ho preso appunti.»
«E dov'è la signora Galiano questa sera?»
Per un attimo mi guardò confuso. Quindi scoppiò in una risata.
«Con suo marito, immagino.»
«Avete divorziato?»
Galiano annuì. Mi sollevò i capelli e mi accarezzò il collo con un dito. Lasciando una traccia incandescente.
«Che mi dice di Ryan?» domandò lui.
«La nostra è una relazione di lavoro.»
Era vero. Lavoravamo insieme.
Galiano si avvicinò. Sentii il calore umido del suo respiro sulla guancia. Poi le sue labbra scivolarono dietro l'orecchio. Sul collo. Sulla gola.
Oh, Gesù.
Mi prese il viso tra le mani e mi baciò sulle labbra.
Sentii il suo odore, misto a un profumo penetrante, forse di agrumi. Il tempo prese a scorrere al rallentatore.
Galiano mi baciò le palpebre, prima una, poi l'altra.
Trillò un cellulare.
Ci separammo.
Galiano staccò il telefono dalla cintura e lo accese, senza smettere di accarezzarmi i capelli.
«Galiano.»
Pausa.
«Ay, Dios.»
Trattenni il respiro.
«Quando?»
Pausa più lunga.
«L'ambasciatore lo sa?»
Chiusi gli occhi, e sentii le dita stringersi in un pugno.
«Adesso dove sono?»
Gesù, ti prego. Non un altro cadavere.
«Va bene.»
Galiano chiuse la comunicazione, mi accarezzò il collo, poi mi appoggiò la mano sulla spalla. Per un momento, mi fissò senza parlare, e gli intensi occhi castani si confusero con il buio dell'abitacolo.
«Chantale Specter?» Non riuscii quasi a formulare la domanda.
Annuì.
«È morta?»
«L'hanno arrestata ieri notte a Montréal.»
14
«È viva?» Colsi la stupidità della mia domanda non appena la formulai.
«Con lei c'era Lucy Gerardi.»
«Non è possibile!»
«Le hanno beccate mentre rubavano CD al MusiGo di Le Faubourg.»
«Rubavano?» Mi sentii un'idiota, ma quella storia non aveva senso.
«Cowboy Junkies.»
«Ma perché?»
«Immagino si siano date al folk rock.»
Alzai gli occhi al cielo. Ennesimo commento inutile, visto che eravamo al buio.
«Che cosa può averle portate a Montréal?»
«L'Air Canada.»
Stronzo. Ma questo lo tenni per me.
Galiano avviò il motore e uscì dal parcheggio.
Durante il tragitto, rimasi seduta con le ginocchia al petto. La contromisura non era necessaria. La notizia di Chantale Specter aveva congelato in entrambi qualsiasi velleità amorosa.
Arrivati all'albergo, aprii la portiera con l'auto ancora in movimento.
«Chiamami appena sai qualcosa.»
«Lo farò.»
Agitai una mano nello spazio tra me e Galiano.
«È un problema?» Avevo il viso in fiamme.
Galiano sorrise. «Niente affatto.»
Troppo agitata per andare subito a letto, controllai i messaggi nella segreteria telefonica di Charlotte e di Montréal. Pierre LaManche aveva chiamato per comunicarmi che una testa mummificata era stata ritrovata in un attico di Québec. I giornali in cui era avvolta indicavano che risaliva agli anni Trenta. Il caso non era urgente. Però un busto putrefatto era affiorato in superficie, sulla riva del Lac des Deux-Montagnes, e LaManche voleva che lo esaminassi quanto prima.
In North Carolina non c'erano casi per un'antropologa forense.
Pete diceva che Birdie e Boyd stavano bene.
Katy non era in casa.
Ryan non era in casa.
Mangiai due ciambelle da una scatola che tenevo per i casi di emergenza, e accesi il televisore sulla CNN.
La tempesta tropicale Armand minacciava la penisola della Florida. Tre canadesi erano stati arrestati per un giro di azioni false. Una bomba aveva ucciso quattro persone a Tel Aviv. Un incidente ferroviario vicino a Chicago aveva provocato circa un centinaio di feriti, per lo più con danni ai tessuti molli. Auguri agli avvocati.
Mi infilai nella vasca da bagno, feci un impacco rigenerante ai capelli, mi depilai gambe e ascelle, regolai le sopracciglia con le pinzette e mi cosparsi di crema per il corpo.
Liscia e morbida, mi infilai sotto le coperte.
Ma in testa mi ronzavano mille pensieri, e il sonno tardava a venire.
Claudia De la Alda era stata vittima di un omicidio qui in Guatemala. Patricia Eduardo era ancora dispersa, ma poteva essere la ragazza della fossa biologica. Chantale Specter e Lucy Gerardi erano vive e agli arresti in Canada.
Che cosa aveva attirato Chantale e Lucy a Montréal? Com'erano arrivate fin lì senza lasciare tracce? Dove si erano nascoste, e perché?
La ragazza della fossa c'entrava qualcosa con l'omicidio di Claudia De la Alda, oppure i due casi non erano collegati? La teoria del serial killer di Galiano stava sfumando? Chi aveva telefonato per avvertire del cadavere di Claudia De la Alda?
Chi si stava occupando della famiglia di quella ragazza? Qualcuno li stava aiutando ad affrontare quel terribile dolore?
Dov'era Patricia Eduardo? Era veramente suo il cadavere ritrovato nella fossa biologica? Poi un pensiero stranamente fuori luogo. Chi si stava occupando del cavallo di Patricia?
Chi aveva avvertito Galiano dell'arresto di Chantale Specter? La notizia mi aveva così sorpresa che non gliel'avevo nemmeno domandato.
Galiano.
Mi sentivo come una ragazzina sorpresa a limonare sul divano.
E Ryan?
Già, come la mettevo con Ryan?
Ryan e io uscivamo insieme. Eravamo andati a cena, avevamo visitato il Musée des Beaux Arts, partecipato a qualche festa, giocato a tennis. Mi aveva perfino iniziato al bowling.
Eravamo una coppia?
No.
Potevamo esserlo?
La giuria era a un punto morto.
Ryan mi piaceva molto, rispettavo la sua integrità, apprezzavo la sua compagnia.
Sentii un brivido caldo dalle parti dello stomaco.
Lo trovavo terribilmente sexy.
Allora perché mi sentivo attratta da Galiano?
Altro brivido caldo.
Che porcella!
Ryan e io avevamo trovato un punto d'intesa. No, veramente avevamo stretto un accordo. Un tacito accordo. Non chiedere niente. Non dire niente. Se funzionava per i militari degli Stati Uniti, poteva funzionare anche per noi. E infatti così era stato fino a quel momento.
Inoltre, non avevo intenzione di avere una storia con Galiano.
Guarda il lato positivo, mi dissi. Non hai firmato nessun contratto né con Ryan, né con Galiano. Quindi non c'è niente da dire.
Appunto. Il problema era proprio quello.
Dopo essermi rigirata nel letto per un'altra mezz'ora, la mia libido frustrata e io finalmente ci addormentammo.
Il telefono mi svegliò dal mio sonno profondo. Una luce fioca filtrava dalle tende immobili davanti alla finestra aperta.
Dominique Specter sembrava in preda all'effetto di qualche stupefacente.
«Ha saputo?»
«Sì.»
Lanciai un'occhiata alla sveglia. Le sette e dodici.
«C'est magnifique. Non il furto, ovviamente. Ma Chantale sta bene, capisce?» Aveva un tono inquieto, e parlava a voce alta. Inoltre, il suo accento era più forte di come lo ricordavo.
«È una splendida notizia.» Mi alzai a sedere.
«Oui. La mia bambina è viva.»
«Per caso sa se a Chantale hanno contestato altri reati, a parte il furto?»
«No. Dobbiamo andare là e riportarla a casa.»
Evitai di farle notare che forse il giudice aveva idee diverse in merito.
«Se ha di nuovo problemi di droga, troverò un'altra comunità. Una migliore.»
«Questa è una buona idea.»
«Insisteremo.»
«Sì.»
«Vedrà che a lei darà ascolto.»
«A me?»
D'un tratto mi ritrovai perfettamente sveglia.
«Mais oui.»
«Non ho intenzione di andare a Montréal.»
«Ho già prenotato due posti sul volo di questo pomeriggio.» La signora Specter era una donna poco abituata ai rifiuti.
«In questo momento non posso lasciare il Guatemala.»
«Ma io ho bisogno di lei.»
«Qui sto svolgendo un lavoro.»
«Non posso andare da sola.»
«Dov'è il signor Specter?»
«Mio marito è impegnato con una conferenza sull'agricoltura a Ciudad de México.»
«Signora Spect...»
«La sera in cui è scappata, Chantale era furiosa. Mi ha detto delle cose terribili. Ha detto che non voleva più vedermi.»
«Sono sicura che...»
«Potrebbe perfino rifiutarsi di parlarmi!»
Portati il Valium.
«Posso richiamarla?»
«La prego, non mi volti le spalle. Ho bisogno del suo aiuto. Chantale ha bisogno del suo aiuto. Lei è la sola persona a conoscere tutta la verità.»
«Vedrò cosa posso fare.» Non mi venne in mente una risposta migliore.
Gettai via le coperte e misi le gambe fuori del letto.
Perché l'ambasciatore non si era precipitato dalla moglie e dalla figlia? Quella donna sembrava davvero disperata.
Fissai il punto in cui mi ero graffiata un ginocchio.
Nella sua situazione, io sarei stata diversa? Probabilmente, ma non era importante.
Ciabattai fino alla macchina del caffè. Poi presi la scatola delle ciambelle e ne mangiai una mentre aspettavo che la preziosa bevanda fosse pronta.
Avrei potuto vedere Ryan. Schiacciai qualche granello di zucchero rimasto sul piano di lavoro, poi mi succhiai la punta delle dita.
LaManche voleva un mio parere sul busto del Lac des Deux-Montagnes. Aveva detto che il caso era urgente.
Pensai a Chupan Ya, agli scheletri che aspettavano sui tavoli operatori del laboratorio della FAFG. Quel lavoro era molto importante. Ma le vittime erano morte da almeno vent'anni. La mia presenza era necessaria quanto l'urgenza di aiutare LaManche? Con Carlos e Molly fuori gioco, Mateo stava già lavorando con meno personale del previsto. Poteva fare a meno di me per un paio di giorni?
Versai il caffè, aggiunsi un goccio di latte.
Pensai al cadavere nel canale di scolo, al dolore di quella famiglia. Claudia De la Alda, diciotto anni. Pensai alle ossa nella fossa biologica, e mi sentii invadere dal senso di colpa.
E dalla frustrazione. Più Galiano e io ci davamo da fare e più sembravamo lontani dalla soluzione.
Avevo bisogno di fare qualcosa di concreto.
Volevo una consulenza sul pelo di gatto.
Guardai l'orologio. Le sette e quaranta.
E poi c'era un'altra cosa. Chissà se Angelina Fereira era riuscita a ottenerla?
Nella scatola erano rimaste altre due ciambelle. Quante calorie in tutto? Un milione o due? Però l'indomani non sarebbero state più buone.
Il viaggio a Montréal mi avrebbe occupata solo qualche giorno. Avrei potuto aiutare la signora Specter a mettersi in contatto con Chantale, e poi tornare dalle vittime di Chupan Ya.
Mangiai le ciambelle, finii il caffè e andai in bagno.
Alle otto chiamai il laboratorio di Montréal e chiesi di parlare con la Sezione DNA. Quando Robert Gagné venne all'apparecchio, gli riassunsi il caso della Pensión Paraíso e gli spiegai che cosa volevo. Lui pensava di potercela fare, e accettò di dare priorità alla mia richiesta se gli avessi consegnato i campioni brevi manu.
Telefonai a Minos, che mi promise di preparare i campioni di pelo di gatto nel giro di un'ora.
Telefonai all'obitorio di Ciudad de Guatemala. La dottoressa Fereira aveva fatto ciò che le avevo chiesto.
Telefonai a Susan Jean allo stabilimento RP Corporation di Saint-Hubert e le riferii quello che avevo già detto a Robert Gagné. Ritenne che la mia idea avrebbe potuto funzionare.
Telefonai a Mateo. Mi disse di prendermi tutto il tempo di cui avevo bisogno.
Idem per Galiano.
Conclusa la mia corvé telefonica, uscii.
Bene, signora ambasciatrice. Ti sei procurata un'accompagnatrice. E speriamo che tu, e tutto ciò che viaggia con te passiate senza problemi la dogana guatemalteca.
Quando entrai in sala autopsie, Angelina Fereira era impegnata con una delle vittime dell'incidente dell'autobus. Sul tavolo anatomico c'era un uomo con la testa e le braccia gravemente carbonizzate, e l'addome spalancato come una bocca aperta in un quadro di Bacon. La patologa stava sezionando il fegato su un vassoio accanto al cadavere. Maneggiava un grosso coltello piatto e mi parlò senza alzare lo sguardo.
«Un momento.»
La dottoressa scrutò attentamente le sezioni tagliate, ne asportò tre frammenti e le raccolse in un vasetto per campioni. Il tessuto fluttuò fino al fondo e si unì ai suoi omologhi provenienti da polmoni, stomaco, milza, reni, cuore.
«Eseguite l'autopsia su tutti?»
«No, sui passeggeri ci limitiamo all'esame esterno. Ma questo è il conducente.»
«L'avete tenuto per ultimo?»
«Gran parte delle vittime erano così gravemente bruciate che non potevamo essere sicuri di chi fosse l'autista. Poi ieri l'abbiamo trovato.»
La dottoressa si tolse maschera e guanti, si lavò le mani e si diresse verso la porta a battente, facendomi cenno di seguirla. Percorremmo un tetro corridoio fino a un piccolo ufficio senza finestre. Entrammo, poi lei chiuse la porta. Aprì un malandato stipetto di metallo chiuso a chiave e prese una grossa busta marrone.
«Un radiologo dell'Hospital Centro Médico mi doveva un favore...» disse in inglese «che sono andata a reclamare.»
«Grazie.»
«Ho sottratto il cranio martedì, appena Lucas è andato via. Non volevo che si sapesse.»
«Di certo non sarò io a dirlo.»
«E ho fatto bene.»
«In che senso?»
La dottoressa Fereira estrasse una delle pellicole nella busta. Conteneva sedici TAC, ciascuna relativa a una sezione del cranio di cinque millimetri. Sollevò una radiografia verso la luce sopra di noi e mi indicò una piccola macchia bianca nella nona immagine. Nelle immagini successive, la radiopacità aumentava, cambiava forma, diminuiva. Alla quattordicesima immagine non era più visibile.
«Avevo notato qualcosa nell'etmoide, e ho pensato che potesse essere utile. Dopo la sua telefonata, questa mattina, sono andata a dare un'altra occhiata al cranio. Ma i resti non c'erano più.»
«Come, non c'erano più?»
«Cremati.»
«Dopo due sole settimane?» Ero sconcertata.
La dottoressa annuì.
«È la procedura standard?»
«Come vede anche lei, non abbiamo molto spazio. Anche in condizioni normali, non possiamo concederci il lusso di conservare gli sconosciuti per un periodo di tempo troppo lungo. In più, con questo incidente siamo proprio al limite.» Abbassò la voce. «Ma due settimane sono comunque un lasso di tempo inconsueto.»
«Chi ha autorizzato la cremazione?»
«Ho cercato di scoprirlo, ma nessuno sembra saperlo.»
«E i documenti non si trovano» tirai a indovinare.
«Il tecnico giura di aver messo il documento nell'apposito raccoglitore, dopo aver eseguito la cremazione, ma adesso quel foglio non si trova da nessuna parte.»
«Qualche ipotesi?»
«Sì.»
Ripose la pellicola e mi porse la busta.
«Vaya con Dios.»
Alle dodici e cinquantasette mi allacciavo la cintura del sedile di prima classe di un volo American Airlines per Miami. Dominique Specter sedeva accanto a me, e tamburellava sul bracciolo con le sue unghie perfettamente laccate. Le TAC della dottoressa Fereira erano chiuse in una valigetta ventiquattrore ai miei piedi, accanto al pacchetto con i campioni di pelo di gatto.
La signora Specter parlò incessantemente durante il viaggio in limousine verso l'aeroporto e durante l'attesa per l'imbarco. Mi descrisse Chantale, raccontò alcuni aneddoti della sua infanzia, azzardò teorie riguardo le cause dei problemi della figlia, illustrò progetti per la sua riabilitazione. Era come un DJ tra un disco e l'altro, terrorizzata dal silenzio, insensibile alla banalità con cui lo riempiva.
Riconobbi tutte quelle chiacchiere come un modo per sciogliere la tensione, mi limitai a emettere qualche suono rassicurante senza dire granché. Rispondere non era necessario. Il suo profluvio di parole continuava senza sosta.
La signora Specter ammutolì solo quando arrivammo sulla pista di rullaggio. Strinse le labbra, appoggiò la testa contro il sedile e chiuse gli occhi. Quando l'aereo si riportò in posizione orizzontale, prese una copia di «Paris Match» dalla borsa e iniziò a sfogliarla.
Le chiacchiere di riempimento ripresero a Miami, e cessarono nuovamente sul volo per Montréal. Supposi che la mia compagna di viaggio avesse paura di volare e attribuii a quella paura la mancanza di conversazione.
Comunque, viaggiare con la moglie dell'ambasciatore aveva anche i suoi vantaggi. Quando il nostro aereo toccò terra, alle dieci e trentotto, ci vennero incontro alcuni uomini in giacca e cravatta, che subito ci accompagnarono oltre la dogana. Alle undici eravamo già in un'altra limousine.
Durante il tragitto, la signora Specter rimase silenziosa come durante il volo. Forse era rimasta a corto di parole, o magari si era calmata. O forse sentirsi a casa le faceva bene al cuore. Attraversammo Centre-Ville, quindi imboccammo la Guy e svoltammo a destra sulla Sainte-Catherine. Ascoltammo Robert Charlebois.
Je reviendrai a Montréal... Tornerò a Montréal...
E guardammo le luci della città sfilare fuori dei finestrini.
Dopo qualche minuto la limousine si fermò davanti al mio palazzo. L'autista scese.
Mentre recuperavo la ventiquattrore la signora Specter mi prese la mano. Le sue dita erano fredde e mollicce, come la carne che esce dal frigorifero.
«Grazie» disse con voce quasi impercettibile.
Sentii l'autista aprire il bagagliaio. Richiuderlo.
«Sono felice di poterla aiutare.»
La signora Specter inspirò a fondo.
«Lei non ha idea di quanto mi stia aiutando.»
La mia portiera si aprì.
«Mi faccia sapere quando possiamo vedere Chantale. Verrò con lei.»
Lasciai la mano in quella di Dominique Specter. Lei la strinse e la baciò.
«Grazie.» Si ricompose. «Posso dire a Claude di accompagnarla fino a casa?»
«La ringrazio. Va bene così.»
Claude mi accompagnò ugualmente fino al portone e aspettò che infilassi la chiave. Lo ringraziai. Lui annuì, lasciò la valigia ai miei piedi e tornò alla limousine.
Di nuovo guardai la signora Specter scivolare via nella notte.
15
Alle sette del mattino dopo stavo già attraversando il ventre d'asfalto di Montréal. Sopra di me, la città sbadigliava e tornava alla vita. Intorno a me, il tunnel Ville-Marie era scuro come il mio umore.
Il Québec era stato travolto da una rara ondata di calore primaverile. Al mio arrivo, intorno alla mezzanotte del giorno prima, il termometro della veranda segnava ancora ventisei gradi, e all'interno dell'appartamento sembrava di essere in un forno.
Il mio condizionatore si era rivelato del tutto indifferente al fatto che preferivo dormire al fresco, e dopo dieci minuti passati a premere pulsanti, a invertire interruttori e imprecare, non ero riuscita a risvegliarlo. Sudata e irritata, avevo deciso di aprire tutte le finestre e di infilarmi a letto.
Ma alcuni ragazzi giù in strada erano altrettanto insensibili al mio bisogno di sonno e di tranquillità. Una decina stavano festeggiando qualcosa sul retro di una pizzeria a dieci metri dalla finestra della mia camera da letto. Le mie urla non erano servite a calmare i loro entusiasmi, né le minacce, né le maledizioni.
Avevo dormito male, rigirandomi tra le lenzuola umide, ripetutamente svegliata da scoppi di risa, canzoni o accessi di rabbia. Avevo salutato il nuovo giorno con un martellante mal di testa.
Il Bureau du Coroner e il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale si trovano in un complesso in vetro e cemento di tredici piani in un quartiere a est di Centre-Ville. In omaggio al suo inquilino principale, la polizia di Stato del Québec, o anche Sûreté du Québec, nel corso degli anni la struttura è stata ribattezzata «edificio della SQ».
Diversi anni fa, il Gouvernement du Québec aveva deciso di destinare un cospicuo stanziamento di fondi alle forze dell'ordine e alle scienze forensi. L'edificio era stato perciò ristrutturato e I'LSJML ampliato e trasferito dal quinto al dodicesimo e tredicesimo piano, in uno spazio precedentemente occupato da un carcere per brevi pene detentive. Durante una cerimonia ufficiale, la struttura era stata inaugurata con il nome di Édifice Wilfrid-Derome.
Ma le vecchie abitudini sono dure a morire. E per quasi tutti è rimasto l'edificio della SQ.
Uscendo dal tunnel all'altezza della fabbrica di birra Molson, passai sotto il Pont Jacques-Cartier, attraversai il De Lorimier, e percorsi le tortuose vie di un quartiere dove non c'è niente di bello, nemmeno le persone. Case a tre piani con cortili francobolli e scale di metallo che si arrampicano sulle facciate. Chiese di pietra grigia e guglie argentate. Dépanneurs, i tipici spacci di generi di prima necessità, alimentari e non, sparsi un po' ovunque. Marciapiedi contornati da negozi. Su tutto questo svettava il complesso Wilfrid-Derome/SQ.
Dopo dieci minuti di ricerche, notai un posto dove, appellandosi a qualche cavillo burocratico, sembrava possibile parcheggiare senza speciali autorizzazioni giusto per il tempo di cui avevo previsto di aver bisogno. Ricontrollai le restrizioni mensili, giornaliere e orarie, feci qualche manovra, afferrai computer portatile e valigetta e mi avviai verso l'edificio della SQ.
Una piccola folla di bambini si stava dirigendo verso una scuola vicina a coppie o a gruppetti di tre, come formiche che convergevano su un ghiacciolo caduto a terra. I primi arrivati affollavano già il cortile, calciando palloni, saltando corde, urlando, rincorrendosi. Una bambina sbirciava attraverso le sbarre della recinzione, stringendole con le mani come la bambina di Chupan Ya. Mi osservò passare, impassibile. Non le invidiai le otto ore che doveva trascorrere in una classe surriscaldata, con ancora un mese a separarla dalla semilibertà estiva.
Né mi rallegrai per la giornata che aspettava me.
Non ardevo dal desiderio di analizzare una testa mummificata. Non ardevo dal desiderio di esaminare un busto putrefatto. Ero terrorizzata dal mio ruolo di mediatrice nella riunione tra Chantale e sua madre. Era una di quelle mattine in cui avrei desiderato avere un lavoro nella società dei telefoni.
Ferie pagate. Indennità varie. Niente cadaveri.
Quando entrai nell'atrio stavo già sudando. Il cocktail mattutino di smog, gas di scarico e odori provenienti dalla fabbrica di birra non aveva aiutato la mia emicrania. Mi sembrava che il contenuto della mia testa avesse superato la capacità del contenitore e stesse premendo per trovare una via di fuga.
Nel mio appartamento era finito il caffè. Mentre mostravo il mio tesserino di accesso allo scanner, superavo i controlli di sicurezza, prenotavo l'ascensore, passavo il tesserino del laboratorio nel lettore ottico e salivo al dodicesimo piano, quella parola si formò sulle mia labbra.
Caffè!
Un'altra passata di tesserino magnetico e le porte di vetro si aprirono, consentendomi l'accesso al reparto medico-legale.
Il lato destro del corridoio era occupato da una fila di uffici, quello sinistro dai laboratori. Microbiologie. Histologie. Pathologie. Anthropologie/Odontologie. Le finestre andavano dal soffitto a metà parete, ed erano progettate per massimizzare la visibilità senza compromettere la sicurezza. Guardando attraverso i vetri notai che tutti i laboratori erano vuoti.
Controllai l'orologio. Le sette e trentacinque. Considerato che la maggior parte dei tecnici, dei professionisti e degli assistenti iniziavano la loro giornata di lavoro alle otto, avevo almeno una mezz'ora tutta per me.
Pierre LaManche era l'eccezione che confermava la regola. Durante quei dieci anni di collaborazione con I'LSJML, avevo sempre visto il direttore della sezione medico-legale arrivare alle sette e fermarsi in ufficio ben oltre l'orario dei suoi collaboratori. Affidabile come un orologio svizzero.
Ma LaManche era anche un enigma. Il direttore prendeva tre settimane di vacanza ogni mese di luglio, e una settimana a Natale. Durante questi periodi telefonava in ufficio tutti i giorni. Non viaggiava, non andava in campeggio, non si occupava di giardinaggio, non andava a pescare né a giocare a golf. A nessuno risultava che avesse un hobby. E quando qualcuno gli aveva rivolto qualche domanda in merito, LaManche educatamente aveva evitato di discutere delle sue vacanze. Ormai amici e colleghi avevano smesso di chiedere.
Il mio ufficio è l'ultimo di una fila di sei, e si trova di fronte al laboratorio di antropologia. È necessaria la chiave per aprire la porta.
La mia scrivania era coperta da una montagna di carta. La ignorai, posai valigetta e computer, presi una tazza e andai nella sala ricreativa del personale.
Come previsto, la porta di LaManche era l'unica già aperta. Mentre tornavo indietro, infilai la testa nel suo ufficio.
LaManche sollevò lo sguardo e mi lanciò un'occhiata da dietro i suoi occhialini a mezzaluna appoggiati sulla punta del naso. Naso lungo. Orecchi lunghi. Faccia lunga, percorsa da lunghe rughe verticali.
«Temperance.» Solo lui usava il mio nome completo. E nel suo francese perfetto e formale, l'ultima sillaba rimava con France. «Comment ça va?»
Risposi che stavo bene.
«Prego, entri pure.» Con la mano enorme e coperta di lentiggini mi indicò le poltroncine di fronte alla sua scrivania. «Si sieda.»
«Grazie.» Posai la tazza di caffè in bilico sul bracciolo.
«Com'è andata in Guatemala?»
Come potevo riassumere la storia di Chupan Ya?
«È stato difficile.»
«Per motivi diversi?»
«Sì.»
«La polizia guatemalteca era ansiosa di averla lì.»
«Non tutti avevano lo stesso entusiasmo.»
«Come?»
«Quanto vuole sapere?»
LaManche si tolse gli occhialini, li posò sul ripiano e si appoggiò allo schienale.
Gli raccontai delle indagini sul caso della Pensión Paraíso, e degli sforzi di Díaz per impedirmi di collaborare.
«E tuttavia quell'uomo non ha interferito nella sua partecipazione alle indagini sul caso di Claudia De la Alda?»
«Non l'ho mai visto.»
«Si sospetta già qualcuno per quell'omicidio?»
Scossi la testa.
«La figlia dell'ambasciatore e la sua amica sono qui, quindi c'è solo una ragazza che risulta ancora scomparsa?»
«Patricia Eduardo.»
«E la vittima della fossa biologica.»
«Sì. Anche se potrebbe essere Patricia.»
Sul mio viso doveva essere affiorato un certo imbarazzo.
«Lei non aveva nessun potere per fermare Díaz» mi giustificò LaManche.
«Avrei dovuto eseguire un esame più accurato quando ne avevo la possibilità.»
Per qualche secondo non parlammo.
«Però ho già un paio di idee.»
Gli raccontai del campione di pelo di gatto.
«Che cosa spera di ottenere?»
«Un profilo potrebbe rivelarsi utile, se già esiste un sospettato.»
«Sì.» Neutro.
«Era stato il pelo di un cane a incastrare Wayne Williams per gli omicidi dei bambini di Atlanta.»
«Non si metta sulla difensiva, Temperance. Sono d'accordo con lei.»
Mescolai il caffè.
«Probabilmente è un vicolo cieco.»
«Ma se monsieur Gagné accetta di fare il profilo del campione di pelo di gatto, non è detto.»
Gli spiegai i piani che avevo per le TAC.
«Questo suona più promettente.»
Lo speravo anch'io.
«Ha trovato le due richieste che le ho lasciato sulla scrivania?»
LaManche si riferiva alla «Demande d'Expertise en Anthropologie» il modulo che ricevo prima di dedicarmi a un caso. Compilato dal patologo richiedente, specifica il tipo di esame necessario, elenca il personale richiesto e fornisce una breve descrizione del caso.
«Il cranio potrebbe non essere umano. Comunque sia, non sembra essere una morte recente. Il tronco è tutta un'altra storia. La pregherei di iniziare da quello.»
«C'è qualche candidato?»
«Robert Clément è un piccolo spacciatore che operava nella zona occidentale di Québec e che di recente si era messo in proprio.»
«Senza pagare il pizzo agli Hells Angels.»
LaManche annuì. «Non possono permettere una cosa simile.»
«Già. Non va bene per gli affari.»
«Clément è arrivato a Montréal all'inizio di maggio ed è sparito poco dopo. La sua scomparsa è stata denunciata dieci giorni fa.»
Sollevai le sopracciglia. I biker in genere evitano di attirare l'attenzione delle forze di polizia.
«Una chiamata anonima. Una voce femminile.»
«Mi metto subito al lavoro.»
Tornata nel mio ufficio, telefonai a Susanne Jean. Non c'era, le lasciai un messaggio.
Quindi portai il campione relativo al caso della Pensión Paraíso alla Sezione DNA. Gagné ascoltò la mia richiesta, giocherellando distrattamente con una penna biro.
«Domanda interessante.»
«Già.»
«Non ho mai lavorato con un gatto.»
«Potrebbe essere un modo per farsi un nome.»
«Sì. Che ne dice di: "Il re della doppia elica felina"?»
«Potrebbe aprire una nuova nicchia di mercato.»
«Potrei chiamarlo Progetto Felix Helix.» Il nome del cartone animato suonò strano in francese.
Gagné prese il contenitore di plastica di Minos. «Posso tenere un sub campione?»
«Può usarlo tutto. Il laboratorio ne ha altri.»
«Le secca se prima gioco un po'? Vorrei testare qualche tecnica.»
«Faccia tutti gli esami che crede.»
Firmammo i moduli per il trasferimento dei reperti e tornai velocemente al mio ufficio.
Prima di passare alla testa e al tronco, dedicai diversi minuti al controllo di ciò che si era accumulato sulla mia scrivania. Individuai i moduli con le richieste di LaManche, recuperai i foglietti rosa delle telefonate ricevute, e lasciai il resto da parte. Speravo in qualche messaggio di Ryan. Bienvenue. Sono contento che tu sia qui. A casa non avevo trovato nulla.
Investigatori. Studenti. Giornalisti. Un avvocato dell'accusa aveva telefonato quattro volte.
Da Ryan niente.
Fantastico. Ryan aveva le sue fonti. Sherlock sapeva che ero tornata, su questo non avevo dubbi.
Il mal di testa si spostò dietro l'occhio destro.
Abbandonai la mia scrivania, presi i moduli della «Demande d'Expertise», mi infilai un camice e mi avviai verso la porta. Prima che la raggiungessi squillò il telefono.
Era Dominique Specter.
«Il fait chaud.»
«Sì, fa molto caldo» concordai, scorrendo uno dei moduli di LaManche.
«Dicono che oggi potrebbe esserci una temperatura record.»
«Sì» commentai distrattamente. Il cranio era stato trovato in un baule. LaManche segnalava denti fortemente scheggiati e una fune stretta intorno alla lingua.
«Nelle città sembra sempre che faccia più caldo. Spero che lì abbiate l'aria condizionata.»
«Sì» risposi, con la mente su qualcosa di più macabro delle previsioni del tempo.
«È occupata?»
«Sono stata via quasi tre settimane.»
«Certo. Mi scusi se le faccio perdere tempo.» Si interruppe, per significare il suo sincero dispiacere. «Possiamo vedere Chantale all'una.»
«Dov'è?»
«In una centrale di polizia tra la Guy e Boulevard René Lévesque.»
Bene. Quadrante Sud. Era a pochi isolati dal mio appartamento.
«Ci vediamo lì.»
Non feci in tempo ad abbassare la cornetta, che il telefono squillò ancora. Era Susanne Jean. Era impegnata tutta la mattina con gli ingegneri della Volvo, per pranzo aveva una riunione di lavoro da Bombardier, ma potevamo vederci nel pomeriggio. Decidemmo di incontrarci alle tre.
In laboratorio, preparai i fascicoli per ciascun caso, e rapidamente scorsi il modulo relativo al tronco. Maschio adulto. Braccia, gambe e testa mancanti. Avanzato stato di decomposizione. Trovato in un canalone di scolo a Lac des Deux-Montagnes. Coroner: Leo Henry. Patologo: Pierre LaManche. Responsabile delle indagini: tenente Andrew Ryan, Sûreté du Québec.
Bene, bene.
I resti erano di sotto, quindi presi l'ascensore diretto, passai il tesserino magnetico e premetti il più basso dei tre pulsanti: LSJML. Coroner. Obitorio.
Nel seminterrato, entrai in un'altra zona riservata. A sinistra, una serie di porte immettevano nelle sale autopsia, tre con un tavolo singolo, una - la più grande - con due tavoli.
Attraverso il finestrino della sala centrale, vidi una donna in camice da chirurgo. Aveva lunghi capelli ricci, chiusi con un fermaglio all'altezza della nuca. Bella, sulla trentina, immancabilmente sorridente, Lisa era da sempre una delle preferite dagli investigatori della Omicidi.
Io la preferivo perché con lei potevo parlare inglese.
Sentendo la porta che si apriva, Lisa si voltò.
«Buongiorno. Pensavo fosse ancora in Guatemala.»
«Ci ritorno tra qualche giorno.»
«C'è qualche problema?»
«No. Dovrei solo dare un'occhiata al tronco di LaManche.»
Fece una strana faccia.
«Dottoressa Brennan. Ma ha sessantaquattro anni.»
«Non è mai troppo tardi.»
«Numero d'obitorio?»
Lo lessi a voce alta dal modulo di richiesta.
«Sala quattro?»
«Prego, da questa parte.»
Scomparve oltre una porta a doppio battente. Dietro, si trovava una delle cinque sale dell'obitorio, ciascuna suddivisa in quattordici compartimenti refrigerati chiusi da portelli d'acciaio. Un cartellino bianco annunciava la presenza di un occupante. Un adesivo rosso avvertiva dell'eventuale positività al virus dell'HIV. Il numero d'obitorio diceva a Lisa dietro quale portello avrebbe trovato il tronco.
Andai alla sala quattro, una stanza dotata di impianto di ventilazione più potente. Era la sala per i casi putrefatti e bruciati. Quella in cui di solito lavoravo io.
Mi ero appena infilata guanti e mascherina, quando Lisa entrò attraverso una porta a doppio battente identica a quella della sala centrale. Aprii la cerniera del sacco mortuario, e l'aria si riempì di un odore nauseabondo.
«Direi che è abbastanza morto.»
«E anche da un bel po'.»
Insieme spostammo il tronco sul tavolo anatomico. Anche se rigonfi e sfigurati, i genitali erano intatti.
«È un maschio» commentò Lisa Lavigne, l'ostetrica.
«Indiscutibilmente.»
Presi qualche appunto mentre Lisa ritirava le radiografie ordinate da LaManche. Le lastre rivelarono artrite vertebrale, e tra i sette e dieci centimetri di osso in ciascuno degli arti mozzati.
Con un bisturi, asportai il tessuto molle sopra lo sterno, e Lisa azionò la sega Stryker per tagliare le estremità sternali della terza, quarta e quinta costa. Facemmo altrettanto con il bacino, segandolo e poi sollevando le porzioni anteriori dove le due metà si incontrano lungo la linea mediana.
Tutte le sei coste e le sinfisi pubiche rivelavano porosità e una marcata irregolarità. Quel signore sembrava un po' in là con gli anni.
Il sesso era indicato dai genitali. Le estremità delle coste e le sinfisi pubiche mi avrebbero permesso di stimare l'età di quell'uomo. Per la razza le cose erano più difficili.
Il colore della cute non è significativo, poiché un cadavere può scurire, sbiancarsi o colorarsi, a seconda delle condizioni post mortem. Quel signore aveva scelto di mimetizzarsi con marezzature verdi e marroni. Potevo rilevare qualche misura, ma senza testa né arti, la determinazione della razza era quasi impossibile.
Procedendo, staccai la quinta vertebra cervicale, la più alta fra quelle rimaste nel collo. Sollevai la carne acquosa da ciò che rimaneva dei moncherini di gambe e braccia e Lisa tagliò un campione da ciascun omero e femore.
Un rapido esame rivelò la presenza di una significativa scheggiatura e di profonde striature a forma di L sulla superfìcie di taglio di tutti i campioni. Sospettai si trattasse di un caso dovuto all'uso di una motosega.
Ringraziai Lisa e portai i campioni al dodicesimo piano, dove li consegnai al tecnico di laboratorio. Denis avrebbe immerso le ossa in acqua, asportato con cautela tutti i tessuti molli e la cartilagine rimasta. Nel giro di qualche giorno, avrei avuto dei campioni pronti per essere esaminati.
Un orologio della McGill, avuto in dono da un'associazione studentesca per un intervento durante una conferenza, occupa il davanzale della mia finestra. Accanto all'orologio, una cornice con un'istantanea di Katy e me, presa un'estate sulle Outer Banks. Quando entrai nel mio ufficio, l'occhio mi cadde sulla fotografia. Provai la solita fitta di dolore, seguita da un'ondata d'amore così intensa che faceva male.
Per la milionesima volta, mi domandai perché la foto innescasse un'emozione così forte. Sentivo la mancanza di mia figlia? Mi sentivo in colpa per essere via così spesso? Dolore per l'amica morta che aveva quella foto accanto al suo cadavere?
Ricordai di aver trovato la fotografia nella tomba della mia amica, ricordai il terrore, la rabbia, rividi il suo assassino, mi domandai se pensava a me durante i giorni e le lunghe notti in prigione.
Perché avevo tenuto quella foto?
Nessuna spiegazione.
Perché la tenevo lì?
Non avevo idea.
O forse ce l'avevo? Non l'avevo forse capito, in qualche angolo dell'inconscio? In mezzo a una follia che rischia di intorpidire il cuore come quella degli omicidi, delle mutilazioni e dell'autodistruzione, quell'immagine stropicciata e sbiadita mi ricordava che avevo dei sentimenti. E suscitava emozioni.
Anno dopo anno, la foto restava sul mio davanzale.
Spostai lo sguardo sull'orologio della McGill. Le dodici e tre quarti. Dovevo sbrigarmi.
16
Fuori dell'edificio della SQ l'aria era pesante e umida. Dal San Lorenzo arrivava una brezza che portava un po' di sollievo. Il puzzo della fabbrica di birra era svanito ma era stato sostituito dal forte odore che saliva dal fiume. Mentre camminavo verso l'automobile, un gabbiano gridava lamentando, o forse festeggiando, il precoce inizio della primavera.
Il sistema di polizia del Québec è complicato. La SQ è responsabile di tutte le zone della provincia che non ricadono sotto la giurisdizione della polizia municipale, la Police de la Communauté Urbaine de Montréal o CUM, che invece controlla l'isola di Montréal e molti dei suoi sobborghi.
La CUM esplica la sua azione in quattro zone: Quadrante Nord, Sud, Est e Ovest. Non molto originale, ma geograficamente corretto. Ogni zona dipende da una centrale in cui hanno sede le sezioni che si occupano delle indagini, degli interventi e delle analisi. Nella centrale è presente anche un centro di detenzione.
I sospetti arrestati per reati diversi dall'omicidio e dalla violenza sessuale aspettano la contestazione dei capi d'accusa in una di queste carceri di zona. Per i furti nel negozio MusiGo di Le Faubourg, sulla Sainte-Catherine, Chantale Specter e Lucy Gerardi erano state portate alla centrale del Quadrante Sud.
Il Quadrante Sud, che comprende il mio quartiere, è variegato come solo una fetta di geografia urbana riesce a essere. Pur essendo una zona abitata in prevalenza da francesi e inglesi, ci sono anche italiani, greci, libanesi, cinesi, spagnoli, indiani e almeno un'altra decina di gruppi etnici. Questa è la zona della McGill University e del locale di spogliarelli Wanda's, del Sun Life Building e dell'Hurley's Pub, della Cathédrale Marie Reine du Monde e del negozio di preservativi di Crescent Street.
Nel Quadrante Sud vivono gomito a gomito separatisti e federalisti, spacciatori e banchieri, ricche vedove e studenti spiantati. È terreno di caccia per tifosi di hockey e per single in cerca di compagnia, un luogo di lavoro per i pendolari dell'hinterland, una camera da letto per i vagabondi che bevono da un sacchetto di carta e dormono sui marciapiedi. Nel corso degli anni ho collaborato spesso alle indagini sugli omicidi commessi entro i confini del Quadrante Sud.
Invertendo il percorso del mattino, entrai nel tunnel diretta verso ovest, uscii ad Atwater, puntai a nord sulla Saint-Marc, svoltai a destra sulla Sainte-Catherine, di nuovo a destra sulla Guy. A un certo punto mi trovai a pochi metri da casa, e desiderai con tutta me stessa di fare quella deviazione, invece di proseguire con gli appuntamenti fissati per la giornata.
Mentre guidavo, pensai ai genitori di Chantale e Lucy. Il señor Gerardi, arrogante e autoritario. La moglie sottomessa. La signora Specter, con le lenti colorate e le unghie laccate. L'assente signor Specter. Loro erano i fortunati. Le figlie erano vive.
Pensai alla signora Eduardo, che ancora si arrovellava su cosa era potuto accadere a Patricia. Pensai ai De la Alda, distrutti dalla morte di Claudia, e forse oppressi dal senso di colpa per non averla potuta impedire.
Entrai in un parcheggio e mi fermai tra due volanti. Vidi Claude, appoggiato alla Mercedes degli Specter, braccia conserte e caviglie incrociate. Quando passai mi rivolse un cenno di saluto.
Entrai nella centrale dall'ingresso principale, andai al bancone della reception, mostrai il tesserino d'identificazione e spiegai il motivo della visita. La guardia studiò la fotografia, mi squadrò per vedere se corrispondeva, poi scorse un elenco con il dito. Soddisfatta, mi disse: «L'avvocato e la madre sono già dentro. Lasci qui la sua roba».
Mi tolsi la borsa dalla spalla e la posai sul bancone. La guardia la chiuse in un armadietto, scarabocchiò qualcosa in un registro e lo girò verso di me.
Mentre scrivevo l'ora e il mio nome, la donna sollevò il telefono e disse qualche parola. Dopo pochi secondi una seconda guardia comparve da una porta verde di metallo alla mia sinistra. La guardia numero due mi controllò con un metal detector manuale e indicò che dovevo seguirla. Mentre percorrevamo un corridoio illuminato da luci al neon, i nostri movimenti venivano registrati dalle videocamere sopra di noi.
La gabbia degli ubriachi si trovava in fondo al corridoio, e gli occupanti oziavano, dormivano o si reggevano alle sbarre. Oltre la gabbia, un'altra porta di metallo verde. Oltre, il blocco delle celle. Di fronte alla gabbia, un bancone, dietro, una griglia di legno, stazione di controllo per i prigionieri che arrivavano. Ambiente carcerario standard.
Superammo diverse porte indicate come ENTREVUE DÉTENU. Dalle mie visite precedenti, sapevo che ogni porta immetteva in una stanzetta con un telefono a parete, sgabelli fissati al terreno, bancone e finestra affacciata su una stanzetta speculare e identica per il visitatore. Le conversazioni avvenivano attraverso pannelli di vetro e linee telefoniche: quelle con i detenuti che non erano figli di ambasciatori.
Superate le stanze dei colloqui, la guardia si fermò davanti a una porta indicata come ENTREVUE AVOCAT e mi indicò di entrare. Non ero mai stata dalla parte degli avvocati, ed ero curiosa di sapere come fosse. Poltrone in cuoio rosso? Bicchierini da brandy? Fotografie di persone che giocavano a golf in Scozia?
Benché più ampia, la stanza era squallida come quella concessa alle fidanzate e ai familiari dei prigionieri. Oltre al telefono, l'unico altro elemento di arredamento era un tavolo in metallo.
Intorno al tavolo sedevano la signora Specter, la figlia, e un uomo che supposi l'avvocato di famiglia. Era alto, e la sua altezza corrispondeva quasi alla sua circonferenza. I capelli grigi formavano una corona intorno alla testa e scendevano fino al collo del suo completo doppia K arricciandosi all'insù. Faccia e pelata erano di un vivace e lucido rosa.
La signora Specter aveva adottato una mise estiva. Indossava completo di lino écru, collant avorio e décolleté con la punta aperta. Un cerchietto dorato tempestato di perline tratteneva i riccioli ramati. Quando mi vide, mi rivolse un sorriso rapido e tirato, poi riprese la sua perfetta espressione Estée Lauder.
«Dottoressa Brennan, vorrei presentarle Ihor Lywyckij» mi disse.
Lywyckij accennò ad alzarsi e mi tese la mano. La sua faccia, un tempo definita dai muscoli, era stata ammorbidita da anni di cibi grassi e di liquori. Sorrisi e gli strinsi la mano. Alla sua stretta che ricordava la carne cruda assegnai un pessimo voto.
«Tempe Brennan.»
«Molto piacere.»
«Il signor Lywyckij rappresenterà Chantale.»
«Oh, sì. Non voglio andare nella grande casa.» La voce di Chantale trasudava sarcasmo.
Mi voltai verso di lei. La figlia dell'ambasciatore sedeva con le gambe aperte, gli occhi bassi, le mani affondate nelle tasche di un giubbotto di jeans senza maniche.
«Tu devi essere Chantale.»
«No. Sono quella stronza di Biancaneve.»
«Chantale!»
La signora Specter posò una mano sulla testa della figlia. Chantale la allontanò con un gesto.
«Tutta questa storia è una stronzata. Sono innocente.»
Chantale sembrava innocente quanto lo Strangolatore di Boston. I capelli un tempo biondi erano neri come il lucido da scarpe. Sotto il giubbotto portava un bustier di pizzo rosa. Minigonna nera elasticizzata, calze nere, anfibi neri e trucco nero a completare l'insieme.
Occupai una sedia di fronte all'ingiustamente accusata.
«La guardia del servizio di sicurezza ha trovato nello zaino di sua figlia cinque CD, signora Specter» esordì l'avvocato.
«Fottiti.»
«Chantale!» Questa volta la mano della signora Specter si posò sulla sua fronte.
«Io sono qui per aiutarti, signorina. Ma non posso certo farlo, se tu insisti a metterti contro di me» cercò di rabbonirla Lywyckij.
«Tu sei qui solo per mandarmi in uno di quei fottuti campi di concentramento.»
Quando Chantale alzò lo sguardo, mi sembrò di vedere odio puro.
«E quella che caspita ci fa qui?» Mi indicò.
La signora Specter si intromise prima che potessi rispondere.
«Siamo tutti molto preoccupati, tesoro. Se hai problemi con le droghe, siamo qui per trovare la soluzione migliore per te. La dottoressa Brennan potrebbe aiutarci.»
«Tu vuoi solo chiudermi da qualche parte così la smetto di metterti in imbarazzo.» La ragazza diede un calcio alla gamba del tavolo, e riportò gli occhi sui suoi anfibi.
«Chant...»
Lywyckij posò la mano sulla spalla della signora Specter, e sollevò l'altra per interromperla.
«Tu che cosa vuoi, Chantale?»
«Voglio uscire di qui.»
«Allora noi cercheremo di farti uscire.»
«Davvero?» Per la prima volta la sua voce sembrò corrispondere alla sua età.
«Qui in Canada non hai precedenti, e il furto nei negozi è un reato minore. Date le circostanze, sono sicuro che riuscirò a convincere il giudice a rilasciarti e ad affidarti a tua madre, se prometti di accettare le sue - del giudice - e le sue - di tua madre - condizioni.»
Chantale non aprì bocca.
«Capisci che cosa vuol dire questo?»
Nessuna risposta.
«Se disobbedisci a tua madre, violerai i termini della custodia.»
Un altro colpo alla gamba del tavolo.
«Hai capito, Chantale?»
«Sì, sì, ho capito.»
«Credi di poter rispettare le condizioni che ti verranno imposte?»
«Ehi, che cazzo credi? Non sono mica idiota.»
La signora Specter sussultò, ma non disse niente.
«E Lucy?»
Lywyckij abbassò la mano, e tolse un immaginario granello di polvere dal tavolo.
«La situazione della signorina Gerardi è più problematica. La presenza della tua amica qui è illegale. Non ha documenti che le permettano di stare in Canada. E questo problema va affrontato.»
«Senza Lucy non vado da nessuna parte.»
«Studieremo qualcosa.»
Lywyckij unì le mani. Sembravano tanti salsicciotti rosa intrecciati.
Per qualche secondo nessuno parlò. Chantale continuò a colpire la gamba del tavolo con gli anfibi.
«Bene.» Lywyckij appoggiò le mani al tavolo e si sporse in avanti. «Forse ora dovremmo parlare della questione della droga.»
Silenzio.
«Chantale, tesoro, dev...»
Di nuovo, Lywyckij zittì la sua cliente sollevando il palmo.
Altro silenzio. Altri calci al tavolo.
Spostai lo sguardo dalla madre alla figlia. Era come passare da «Glamour» a «Metal Edge». Infine, Chantale indicò di nuovo verso di me.
«Quella è una specie di assistente sociale?»
«La signora è un'amica di tua mad...» iniziò Lywyckij.
«Ho domandato a mia madre.»
«La dottoressa Brennan mi ha accompagnato qui da Ciudad de Guatemala» rispose la signora Specter con una vocina incerta.
«Ti aiuta a soffiarti il naso durante il decollo?»
Mi ero ripromessa di non lasciarmi coinvolgere da Chantale, ma in quel momento stentai a controllare l'impulso di prendere il piccolo demonio per la gola. Al diavolo i guanti di velluto e via col pugno di ferro.
«Collaboro con la polizia di questa città.»
Chantale non si lasciò sfuggire l'informazione.
«Quale polizia?»
«Tutta. E la tua commedia non farà impressione a nessuno.»
Chantale scrollò le spalle.
«Il tuo avvocato ti sta consigliando per il meglio.» Non tentai di pronunciare il nome dell'uomo.
«L'avvocato di mia madre ha il quoziente intellettivo di una rapa.»
La faccia di Lywyckij si incupì fino a prendere l'aspetto di una grossa prugna matura.
«Attenta Chantale, perché ti sei messa su una strada pericolosa.»
«Non vi ho chiesto di pagarmi il pedaggio.»
«Devo sapere nei minimi dettagli...» iniziò Lywyckij.
Chantale lo interruppe ancora.
«Che cosa vuol dire che "collabori con la polizia"?» La mia vaga allusione non le era sfuggita. La figlia dell'ambasciatore non era una stupida.
«Lavoro al laboratorio di medicina legale» risposi.
«Il coroner?»
«Diciamo di sì.»
«A Ciudad G squartano i cadaveri?»
«Le autorità guatemalteche mi hanno chiesto di partecipare a certe indagini.»
Valutai se fermarmi lì, ma optai per una piccola dose di realtà.
«Entrambe le vittime sono ragazze della tua età.»
Finalmente gli occhi della Vampira si decisero a incontrare i miei.
«Claudia De la Alda» dissi.
Cercai di cogliere un segno di familiarità con la persona. Niente.
«La sua casa non era lontana dalla vostra.»
«Non mi pare una coincidenza grandiosa.»
«Claudia lavorava al Museo Ixchel.»